Ci sono pezzi di Azienda-Italia dove nessuno pensa a licenziare, né teme di venir licenziato quando verrà meno il divieto-Covid: ad esempio, nei comparti dell’industria alimentare che hanno appena rinnovato il contratto nazionale. Già a fine luglio gli imprenditori di alcune categorie hanno concordato con le organizzazioni sindacali aumenti retributivi per i prossimi quattro anni. Hanno perfino morso il freno di Confindustria, propensa ad attendere un confronto ampio con sindacati e Governo sull’uscita dall’emergenza lockdown. Resta il fatto che potenze del Food in Italy come Barilla e Ferrero, brand della birra e importanti conservieri ittici hanno messo nero su bianco che nell’autunno 2020 non hanno come priorità ridurre gli organici, ma far sì che i dipendenti lavorino a pieno regime – e con tutta la produttività necessaria – per far ricrescere in fretta il fatturato mutilato dal virus. E magari cercare nella crisi globale post-Covid qualche opportunità competitiva.



In questi distretti, per caso, c’è domanda di lavoro extra? C’è “sviluppo” all’orizzonte nonostante tutto (anzi: proprio adesso)? Ecco un paio di questioni – fra tante – che un Governo che si senta davvero “cabina di regia” della politica industriale e del lavoro farebbe bene a porsi: proprio quando gli esperti si dividono fra chi pensa che i posti di lavoro bruciati negli ultimi sei mesi siano inferiori al milione e quanti invece pensano che a fine anno si riveleranno molti di più. Oppure si dividono, gli analisti, fra chi tiene d’occhio il futuro dei dipendenti a tempo indeterminato in Cig – ancora non legalmente e statisticamente “licenziati” – e chi invece osserva quanti hanno già perso un lavoro flessibile, non avendolo ritrovato dopo il lockdown; oppure si attendono ancora di ritrovarlo, ma con pochissime speranze.



Che fare? Come ha detto Mario Draghi a Rimini, “i sussidi prima o poi finiscono”. E come ha fatto eco il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, “agli italiani dobbiamo dare un lavoro, non un sussidio”. Per questo, anzitutto, la riflessione prospettata dal premier Giuseppe Conte sul reddito di cittadinanza appare tutt’altro che trascurabile. Non certo al fine di cancellare, in questa fase, le risorse destinate negli ultimi due anni al Rdc e ai pensionamenti di “Quota 100”. Quei miliardi – preziosi anche con l’arrivo del Sure europeo, anche in attesa dei fondi Recovery – possono essere nell’immediato opportunamente aumentati: ma a patto di venire rapidamente rimodulati; riconvertiti con decisione dall’assistenzialismo alle “politiche attive del lavoro”.



L’emergenza occupazione post-Covid – in Italia – è più grave nei numeri ma non così radicalmente diversa da quella pre-Covid. Se in un birrificio sono disponibili jobs “qui e ora” e i navigator del “decreto Dignità” non si stanno evidentemente mostrando in grado di indirizzarvi in tempo reale un nuovo disoccupato o un vecchio inoccupato, forse è il caso di scongelare il Jobs Act: il più grosso “investimento politico” dell’Italia recente assieme a Industria 4.0. Se il lavoro è un bene di un mercato ormai strutturato anche in Italia, perché impedire a quest’ultimo di funzionare proprio ora? Perché indugiare in polemiche centralistiche attorno all’Inps e non coinvolgere – e se necessario incalzare – i governatori di Regione vecchi e nuovi su progetti spesso già sperimentati? Perché non richiamare in campo le agenzie del lavoro?

Un “licenziamento” – individuale o collettivo – resta naturalmente la rottura di un contratto fra un datore e uno o più fra i suoi dipendenti. L’exit dal divieto di licenziare imposto dal Governo durante la fase acuta dell’emergenza sanitaria è quindi un dossier di competenza, anzitutto, delle le parti sociali. Queste si siederanno nelle prossime settimane al tavolo della “Fase 3” con molte preoccupazioni condivise: evitare il più possibile esuberi e licenziamenti, creare le migliori condizioni per la ripresa. È tuttavia inevitabile – e in fondo fisiologico – che si ritrovino a battagliare su molti temi operativi. Uno si annuncia già di particolare momento:quanto lavoro nazionale potrà essere fatto migrare in territorio smart?

È un tema-Paese: riguarda sia la Pa, sia l’impresa privata. È una svolta che susciterà questioni “alte”: come trasformare milioni di italiani in veri lavoratori digitali? Oppure questioni apparentemente opposte e “basse”: un lavoratore a casa ha ancora diritto ai buoni-pasto? Da un lato vi sono imprenditori, manager, alti burocrati scettici sulla possibilità di mantenere – o aumentare – la produttività del lavoro in modalità smart. Le organizzazioni sindacali covano dal canto loro un timore diverso: che un’introduzione massiccia e sistematica di smart working con la motivazione di evitare licenziamenti oggi, preluda a ondate di licenziamenti domani o dopodomani. Oppure – forse più realisticamente – prepari una riduzione tendenziale e strutturale delle retribuzioni del lavoro dipendente.

Nessuno delle carte che verranno calate sul tavolo sarà illegittima o irrilevante: non il trade-off fra dieci euro al giorno di un buono pasto in un bilancio familiare e i mille euro al mese di uno stipendio salvato piuttosto che tagliato. Non sarà mai eccessiva la valutazione attenta delle risorse da destinare agli ammortizzatori sociali d’emergenza oggi rispetto a quelle che dovranno essere investite in radicali riorganizzazioni digitali. Gli imprenditori dovranno essere tali nell’innovatività, non solo nel taglio dei costi. Ai lavoratori sarà certamente chiesto un simmetrico impegno al cambiamento (il lavoro di alcuni si estinguerà oppure si trasformerà in autonomo). Il Governo, non da ultimo, ha in mano poteri e risorse golden: il suo errore imperdonabile sarebbe non esercitare i primi e non investire le seconde nel sistema-Paese, abbandonandosi a pulsioni neo-stataliste.