La crisi delle crisi – anche oltre le cortine di una nuova emergenza sanitaria – resta quella del lavoro. Lo confermano i primi dati Istat, che stimano già in mezzo milione i posti di lavoro “uccisi” dal Covid. Ma lo ha detto con chiarezza e franchezza Mario Draghi al Meeting di Rimini: i sussidi prima o poi finiscono e anche il più “buono” dei debiti pubblici straordinari non può gonfiarsi a dismisura. Solo investire sul “capitale umano” dei giovani può garantire un approdo sull’altra riva di una crisi epocale che forse il Covid ha alla fine solo reso conclamata.



Superare “la crisi” – soprattutto per un Paese come l’Italia – significa ricostruire un sistema economico animato da un lavoro “buono”: capace di dare competitività alle imprese, si tratti di un’azienda tecnologica o di un resort turistico; di agricoltura o di industria entrambe obbligate a diventare in fretta “4.0”.



Le risorse che verranno mobilitate per rispondere ai colpi vibrati dalla pandemia dovranno essere quanto più indirizzate a generare lavoro “buono” perché “nuovo”: questo – ha ricordato il presidente emerito della Bce – anzitutto attraverso investimenti in education, in digitalizzazione industriale, in re-infrastrutturazione green. 

Da settimane parti sociali e governo sembrano ancora avviluppate attorno ai nodi immediati portati dal Covid al mercato del lavoro. Brutalmente: nelle prossime settimane sul tavolo vi saranno ancora il divieto straordinario di licenziare (che le imprese vorrebbero rimuovere in fretta e le organizzazioni sindacali no) e lo sviluppo delle politiche di ammortizzazione dei posti di lavoro messi in discussione dall’improvvisa recessione. Nessuno, ovviamente, si sente di mettere in discussione la portata dell’emergenza socio-economica e le preoccupazioni del governo: sia nel modulare l’exit dal blocco dei licenziamenti, sia nel ritessere a medio termine la rete delle protezioni sociali. Lo stesso presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, in una lettera preparatoria dell’assemblea nazionale di fine settembre ha dato risalto alle proposte di rafforzamento degli strumenti esistenti eventualmente anche ripensando anche il reddito di cittadinanza.



La questione vera – ma di questo mostra di non essere inconsapevole neppure un leader sindacale come Maurizio Landini – resta tuttavia quella del lavoro che deve tornare più che il lavoro che non c’è più. E la ripresa in spirale virtuosa di prodotto e reddito – in un Paese del G7 fra i primi tre della Ue – non può che seguire un robusto “balzo in avanti” della produttività del lavoro.

Se la vera ripresa è nuova occupazione di qualità, sarebbe socio-politicamente disonesto da parte di tutti gli attori dimenticare che già nel 2015 l’Italia era stata in grado di imboccare un percorso riformistico che ha posto una strategia strutturale e organica di rilancio dell’occupazione sul mercato.

Il Jobs Act – varato nel 2015 e seguito a ruota dal piano nazionale Industria 4.0 – ha definitivamente segnato il superamento della stagione del lavoro come “variabile indipendente”. L’occupazione – che è l’obiettivo della politica economica del governo – è invece funzione della capacità del sistema-Paese di creare capitale umano; e del mercato del lavoro di svolgere con nuove dimensioni di efficienza ed efficacia il matching fra domanda e offerta. Di più: il mercato del lavoro – dove Stato e Regioni cooperano con una fitta rete sussidiaria di agenzie e altri intermediari – genera direttamente valore aggiunto, portando alla luce i talenti dei giovani e dando concretezza ai profili professionali richiesti dalle aziende.

Le “politiche attive del lavoro” – vero drive innovativo del Jobs Act – avrebbero dovuto proiettare l’Azienda Italia su uno scenario competitivo di knowledge economy. Non è (ancora) avvenuto: anzi, il Decreto Dignità, all’esordio del primo governo Conte, ha perfino congelato quella strategia. Che ora può continuare a sembrare a qualcuno “fuori tempo e luogo” in questo incertissimo e difficilissimo volgere del 2020. E’ vero il contrario: è questo il momento di ritirare fuori dal cassetto il Jobs Act, di usarlo al meglio, di investirvi il più possibile “debito buono” per “lavoro nuovo”.