La trappola che tiene fermo un pezzo di Paese è la tagliola della meritocrazia. Non ne conosciamo bene i meccanismi nel nostro sistema educativo e professionale, ed anzi spesso se ne invoca una maggiore dose, ma appena il merito si avvicina alle nostre vite appare insopportabile. Che sia usato per noi o contro di noi, scatena reazioni profonde e sentiamo che qualcosa non quadra. Nel nostro Paese non siamo disposti ad accettare che una vita sia condannata dal mancato merito e tantomeno che sia il merito solo a guidare al successo. Il dubbio che dietro valutazioni o risultati ci sia sempre qualcosa che non va, una pressione o un aiutino, rende il concetto di merito lontano di per sé dalla nostra cultura e condanna chi lo insegue ad estenuati e perigliosi percorsi per far accettare quel che dovrebbe essere chiaro, ovvero che chi merita di più emerge.

Tanto è avulso da noi, che in questi anni tanta parte della popolazione si è rivolta a chi propaganda nella sostanza l’irrilevanza del merito e dello studio per accedere a ruoli impegnativi, il che ha aperto una stagione di contestazione del sapere che ha coinvolto temi storicamente tecnici, dalla salute all’ingegneria, divenuti argomenti su cui si può avere un’opinione certa pur senza capirne nulla. Ma inseguire solo il merito può essere una terapia.

Sul perché ne scrive il Finacial Times che con un bel testo di Rana Foroohar intitolato “Why meritocracy isn’t working” prova a spiegare, più nel dettaglio, come la società puramente meritocratica di matrice anglosassone stia perdendo la battaglia, creando le basi per un conflitto irrimediabile tra i presunti primi ed i presunti ultimi. Battaglia che ha generato il fenomeno Trump e che nel nostro Paese vede contrapposto Calenda e Renzi ai 5 Stelle ed alla Lega. La colpa sarebbe nella sostanza della hybris di chi ha, o pensa di avere merito, che non comprende chi, a suoi occhi, non ne ha. Condannandolo ad una damnatio perpetua ed irrimediabile fatta di bassi redditi e nessuna opportunità di emergere altrimenti.

Questa dinamica è ben nota nel nostro Paese. Per anni la narrazione di un Mezzogiorno immeritevole contrapposto ad un Nord meritevole ha alimentato spinte secessioniste o rivendicazioni neoborboniche senza ritrovare alcun risultato. Anzi, la divaricazione è stata funzionale solo a chi l’ha cavalcata ma i Borbone restano lontani e la secessione ormai è scomparsa dalla politica. È rimasta però un’algida sensazione di estraneità tra i due pezzi del Paese che hanno costruito ognuno una propria narrazione per giustificare rivendicazioni o attribuirsi meriti. Ma come dimostrato dalla Svimez in questi anni forse la gara non è stata così corretta e pezzi di Paese si sono avvantaggiati anche dell’incapacità di chi ha rappresentato il Mezzogiorno.

Perché quindi il merito può essere un trappola? Il perché è che non può esserci merito se prima non si ristabilisce un minimo di equità, se prima non si mette in sicurezza la coesione del Paese e non si garantisce a chi è per sorte nato in un contesto complesso di poter accedere ad una piena espressione di se stesso. Nella fase che si sta per aprire abbiamo la grande opportunità di ristabilire un equilibrio nuovo tra territori e di metterli in condizione di crescere assieme ed abbiamo la necessità di farlo perché proprio nel Mezzogiorno risiedono le più alte potenzialità di crescita che possono dare al Paese uno slancio. Così come chiarito da Zingaretti, prima ancora da Provenzano, il governo Conte dovrà garantire che il Recovery Fund venga distribuiti secondo la regola  del 34%, che impone di dare al Mezzogiorno quella quota di spesa senza se e senza ma.

Non per “merito”; ma perché ne hanno diritto tutti quesì cittadini, quelle imprese, quei territori che per decenni non hanno potuto competere perché partivano zavorrati e bloccati da tanti, troppi fattori che ne rendevano impossibile ogni emancipazione. E si deve farlo per ristabilire il principio che una società equa si occupa di tutti, degli ultimi per prima, e poi può chiedere a chi emerge dal fondo di dare un contributo per far crescere il Paese.

Una società che fosse fondata solo sul merito, che non tenesse a cuore con empatia le sorti di chi gli è prossimo sarebbe destinata a scadere nella dinamica del populismo rivendicatorio e delle contrapposizioni dannose.

Perciò serve che il merito venga introdotto e valutato al momento giusto e non diventi trappola infermale che blocca sviluppo e ripresa, come una scusa infantile per maniere i propri vantaggi, e non con come un valore che può dare una scossa positiva alla vita di tutti.