Torna la guerra delle vignette e con essa appare evidente, ancora una volta, che la visibilità dell’Islam nella vita sociale europea ha cambiato lo spazio pubblico: riafferma problemi nuovi o dimenticati. Torna in primo piano anche il conflitto, apparentemente insolubile, tra la libertà di espressione e quella religiosa.

A settembre è iniziato a Parigi il processo per gli attentati contro la rivista Charlie Hebdo e nel supermercato kosher del gennaio 2015, che provocarono la morte di undici persone. Il settimanale ha ristampato le vignette di Maometto perché vuole “riaffermare lo spirito con il quale furono pubblicate”: la difesa della libertà di espressione. L’Università egiziana di al-Azhar, punto di riferimento del mondo sunnita, ha considerato il gesto “un atto criminale”, perché incita all’odio. Stiamo parlando di un’istituzione lontana dall’essere radicale, basti ricordare che fu promotrice insieme agli Emirati Arabi Uniti della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana, al momento il punto più avanzato nel dialogo tra mondo musulmano e quello cristiano. 

La tensione tra libertà di espressione e libertà religiosa non ha soluzione? Certamente è uno dei punti caldi della globalizzazione, secondo il rapporto del 2009 di Ahmed Shaheed, Relatore Speciale sulla libertà del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Egli sostiene che in un mondo sempre più interconnesso, con uno scambio rapido di informazioni, sta avvenendo una restrizione della libertà di espressione mediante leggi contro la blasfemia e l’apostasia. La giustificazione di queste limitazioni è contenere l’odio. Secondo alcune stime, quasi la metà dei Paesi del mondo ha leggi contro la blasfemia.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, l’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) tentò di far introdurre nella normativa dell’Onu misure contro la diffamazione religiosa. Lo fece invocando la necessaria protezione della comunità musulmana che stava soffrendo danni al suo buon nome a causa degli attacchi jihadisti. Sembrava la ricerca di una vittoria della libertà religiosa su quella di espressione. Nel 2009 la questione fu però risolta con una risoluzione del Consiglio per i diritti umani, promossa dagli Stati Uniti e dall’Egitto. Il testo chiariva che la protezione dalla diffamazione riguardava solo le persone, non le religioni. La libertà di espressione, come definita nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, deve prevalere.

Anche il diritto internazionale si è pronunciato in favore della prevalenza della libertà di espressione sulle leggi che vogliono proibire e sanzionare la blasfemia e questo è il parere anche del Comitato per i diritti umani. Nel Piano d’azione di Rabat del 2013, l’Onu propone di sopprimere tutta la legislazione contro la blasfemia. Certamente gli esempi di come vengono utilizzate queste norme in Pakistan e in Myanmar indicano che spesso diventano strumenti di repressione delle minoranze: in Pakistan della minoranza cristiana da parte della maggioranza musulmana, in Myanmar della minoranza musulmana da parte della maggioranza buddista.

Vittoria assoluta della libertà di espressione su quella religiosa? No. C’è un’ipotesi nella quale prevale la libertà religiosa: quando c’è “apologia dell’odio religioso”, quando ciò che si dice può causare violenza o disordine pubblico. Un limite interessante per giudicare, per esempio, certi messaggi sui social network.

È questo tutto ciò che il diritto può dire su uno dei conflitti che segnano la nostra epoca? Dobbiamo accontentarci di stabilire alcuni chiari limiti (come se questo fosse possibile)? Uno studio recente dell’Università Complutense di Madrid intitolato Leyes de Blasfemia en el Derecho Internacional (Leggi sulla blasfemia nel diritto internazionale) indica una via d’uscita interessante. “Nella pratica la restrizione della libertà di espressione influisce negativamente sulla libertà religiosa, perché senza libertà di espressione non ci sono le condizioni necessarie perché la libertà religiosa prosperi”. In altri termini, non vi sono ragioni per cui le due libertà debbano essere contrapposte: di fatto, sono condizione l’una dell’altra. Senza libertà non c’è religione.

Un’affermazione che un occidentale di tradizione cristiana o liberale accetterà sicuramente senza problemi e che comporta una sfida per il mondo musulmano europeo. Tuttavia, il postulato resta incompleto senza una seconda affermazione: senza libertà religiosa e religiosità non c’è libertà di espressione. E questo è più accettabile da un musulmano europeo che da un liberale europeo. Fuori dal mondo del diritto, è facile per un uomo religioso, nel più ampio significato del termine (qualcuno semplicemente legato ai suoi vicini), comprendere che la libertà non è un lanciafiamme, bensì uno strumento di costruzione. E si costruisce poco diffamando o bestemmiando.