Giovedì scorso, già all’alba, dopo cinque morti seguiti agli scontri del giorno prima, a Capitol Hill i rappresentanti legittimi degli Stati Uniti hanno ratificato la vittoria elettorale di Biden. In quel momento il cappellano del Congresso ha dichiarato: “Questa tragedia ci ha ricordato che le parole sono importanti e che il potere di vita e di morte è nella lingua”. Un buon riassunto di una delle cause più rilevanti di un assalto alla democrazia che è l’ultimo risultato di anni di menzogne e di messaggi di odio diffusi mediante i social network. Trump ha basato buona parte del suo mandato presidenziale e ha gestito la sua sconfitta facendo credere ai suoi sostenitori che erano vittime di ingiustizie alle quali avrebbe rimediato. Le parole non sono indifferenti. L’uso sistematico di parole senza verità, di parole false, parole che banalizzano il mondo e strumentalizzano le ferite è una minaccia per un regime fragile come la democrazia.

Un regime, quello democratico, che non dipende solo da chi ha il monopolio della violenza, dal gioco delle maggioranze o dall’architettura istituzionale. Tutto questo è decisivo, ma la stabilità della democrazia dipende, alla fine, molto più da ciò che si è abituati a pensare, da un dialogo nazionale che la sostiene. Un dialogo che negli Stati Uniti, e in buona parte dell’Occidente, è sparito o si è trasformato in una forma di violenza. Nei suoi quattro anni di mandato, Trump ha diffuso un discorso infuocato tramite i social network. Suona ironico il fatto che i principali social abbiano bloccato i racconti dell’ancora Presidente quando era già avvenuto l’assalto al Campidoglio. Lo hanno fatto dopo aver sfruttato l’indecente attività di diffondere, senza filtri, un discorso di odio. Specialmente Facebook.

Allora si tratta solamente di un problema di parole, di eccessi verbali del populismo? Phillip Blond, responsabile del think tank ResPublica, in questi giorni indicava l’esistenza di una questione molto più profonda. Quanto successo al Capitol sarebbe espressione di una società molto violenta, nella quale i poveri sono trattati con disprezzo e dominata da una sistematica divisione. Blond descrive gli Stati Uniti come un Paese che ha fallito nella capacità di integrazione, nel quale è altissimo lo scotto da pagare se non si fa  parte del gruppo ridotto dei vincitori. Il sistema sociale, malgrado sia liberale, è talmente segnato dalla diseguaglianza da organizzarsi in identità che appaiono pre-moderne, quasi un’organizzazione per tribù e razze. 

L’intellettuale inglese forse esagera, ma certamente indica le conseguenze nefaste di un sistema liberale che non presta sufficiente attenzione all’eguaglianza e sottomesso a una decomposizione identitaria nella quale ciò che è comune cessa di esistere. Questo è il brodo di cultura del discorso di odio e aiuta a capire perché nelle prime ore fino al 20% di statunitensi non ha condannato quanto accaduto lo scorso mercoledì.

Un osservatore acuto come David Brooks, forse però troppo ottimista, ha scritto sul New York Times che quanto accaduto a Capitol Hill diventerà un punto di svolta, un passo indietro rispetto alla follia. Questo può essere il momento in cui la grande nazione, divisa, riconoscerà di non aver bisogno di bugie, anarchia e demagogia. Brooks non sembra rendersi conto che la democrazia non è un’evidenza che rimane comunque salva nelle anime degli occidentali. Non basta un momento di catarsi per recuperare i nostri geni democratici. Non è una questione di DNA. Le conquiste contingenti della nostra cultura politica non possono essere considerate la forma finale dell’esistenza umana. È un problema di storia, o meglio di educazione. L’assalto a Capitol Hill è l’avvertimento, uno di più, che un mondo è finito, quello della Dichiarazione di Indipendenza che riteneva “evidenti” alcune verità (la vita, la libertà, l’uguaglianza e la ricerca della felicità). Queste verità non sono più chiare per molti.

Non c’è democrazia senza uguaglianza, non c’è democrazia dove regnano identità frammentarie, alimentate e sfruttate dal capitalismo digitale. Soprattutto non c’è democrazia se essere cittadino, oltre che essere titolare di certi diritti, non è una forma di dire io che implica essere-con-gli-altri.