Il Cnel è stato concepito dalla Costituzione del 1948 come “terza camera” per tenere la democrazia politica – Camera e Senato e quindi Governo – coi piedi ben piantati sul terreno dell’economia in una Repubblica “fondata sul lavoro” (non sul debito pubblico o sulla finanza speculativa). Dopo 73 anni il Consiglio presieduto oggi da Tiziano Treu ha mostrato di sapersi mantenere fedelissimo a quel mandato costituzionale, quando ha usato toni particolarmente forti nel definire “esplosiva” la situazione dell’economia e del lavoro nell’Italia di inizio 2021.
Dal “Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione 2020”, indirizzato anzitutto al ministro del Welfare, non sono emerse sorprese: solo la durissima realtà di un’economia del G7 nel pieno della recessione-Covid. Un’Azienda-Italia in cui 12 milioni di lavoratori, fra dipendenti e autonomi – uno su due – è stato colpito direttamente dalla pandemia, nella stabilità dell’impiego o nel reddito. Dieci milioni di lavoratori attendevano nel 2020 il rinnovo delle loro cornici contrattuali e non l’hanno avuto. Il Cnel lo segnala come ferita (non lieve) in più al termine di un anno da cui ci si aspettava un’accelerazione del contrasto alla disoccupazione. Il virus non ha invece consentito di intaccare i due milioni di Neet ancora concentrati nella fascia 25-35 anni e ha visto appesantirsi il “gender divide” che tiene ancora inoccupata una donna italiana su due.
Ora l’emergenza immediata – riconosce il Cnel – è certamente quella di puntellare l’occupazione con ogni mezzo. Tuttavia la raccomandazione forte, in margine al Rapporto, è quella di non ridurre l’approccio analitico e quindi il confronto sugli strumenti di politica del lavoro alle categorie-scelte di brevissimo termine: sì o no al blocco dei licenziamenti e/o per quanto tempo prolungare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali esistenti.
Il Covid non ha contagiato il mercato del lavoro in via congiunturale: sta invece “alterando in profondità il funzionamento del mercato del lavoro come dell’economia, con impatti diversificati per settori, territori, gruppi sociali, allargando e divergenze”. Le “fratture” da curare non sono solo quelle – pur gravi e dolorose – dei lavoratori in esubero o dei giovani che continuano a non trovare occupazione. Possono essere più insidiose quelle meno visibili, lasciate ad esempio negli studenti (futuri lavoratori) da una didattica a distanza prolungata e non gestita. Oppure – in termini economici, organizzativi, normativi di contenuto professionale – quelle indotte dal dilagare selvaggio e affannoso del “lavoro agile”. Lo “smart working” non può rimanere un improvvisato “piano B”, anticamera della neo-precarietà.
E’ chiaro che nei prossimi mesi e anni il mercato del lavoro sarà costantemente a rischio di imboccare traiettorie di distruzione di valori economici e sociali, oppure percorsi virtuosi di innovazione digitale orientata dai valori del lavoro. La recovery del ciclo economico si profila certamente come condizione necessaria per il rilancio del mercato del lavoro, ma non sufficiente. Urge una nuova politica del lavoro (e della scuola).