Come quasi tutti, non avrei fatto attenzione alle elezioni in Uganda, se non fosse stato per il fatto di essere venuto a conoscenza della vita e delle mirabilia di “brother” Elio Croce ed esserne rimasto assai colpito. Chi era costui? Un umile fratello comboniano che alla gente ugandese ha regalato tutti interi fino all’ultimo cinquant’anni di vita, dal 1971 al novembre dello scorso anno, stroncato dal Covid a 74 anni di età. Ha compiuto meraviglie di accoglienza dei poveri disgraziati e di soccorso a ogni sorta di elementare bisogno, dal cibo alla salute, all’educazione. Non si è mai tirato indietro. Non si è mai lasciato intimorire dalla ferocia delle soldataglie delle opposte fazioni usi a stuprare, rapire, mutilare e ammazzare anche i bambini; né dalla micidiale epidemia di ebola, come se non fosse bastato il flagello dell’Aids di anni prima e la malaria di sempre. Costruttore, grande costruttore. Non ha fatto altro che costruire: opere e umanità. Quanti grazie a lui sono stati salvati, curati e introdotti a una vita degna, impossibile contarli. Il suo esempio ha inciso soprattutto contagiando tantissima gente che si è scoperta grata e cambiata.

E pensare che per status ecclesiastico e studi, non era certo da prima fila. Era un fratello: cioè non sacerdote, quindi non titolare dell’annuncio missionario, ma ausiliario addetto ai rifornimenti, alle strutture e alla manutenzione. Poi non era laureato, ma “solo” diplomato: perito meccanico; teologia, poco o niente. In compenso sapeva fare tutto, dall’aggiustare una bicicletta a costruire sale operatorie. Anche grazie a lui il St. Mary’s Lacor Hospital di Gulu è diventato una struttura di avanguardia universalmente riconosciuta, roccaforte tra l’altro della vittoriosa battaglia contro l’ebola.

E poi le case-famiglia per i bambini orfani, abbandonati o disabili, la scuola, la farm per produrre e insegnare il lavoro agricolo. Un pezzo di Uganda nuova nell’Uganda, quella acholi del nord, la parte più povera e trascurata dal governo di Kampala. Naturalmente brother Elio non da solo, ma in un contesto comunitario e fraterno di presenze di varie realtà – comboniani, Cl, Fondazione Piero e Lucille Corti, Avsi – impegnate in una vera ed efficace promozione umana, diremmo “dal basso”.

Ma veniamo alle elezioni. È stato rieletto per la sesta volta consecutiva presidente un signore di 76 anni, Yoweri Kaguta Museveni, che lo divenne la prima volta nel 1986 per autoproclamazione dopo aver preso Kampala manu militari cacciando Milton Obote, e che ha fatto modificare un paio di volte la costituzione per poter essere rieletto, e rieletto e rieletto… secondo le regole. Ha agguantato il 58% dei voti, contro il 34 del principale avversario, Robert Kyagulanyi Ssentamu, 38enne rapper noto come Bobi Wine nelle contestatissime votazioni del 14 gennaio, precedute da settimane di violenze con 54 morti. Negli ultimi cinque giorni il presidente uscente e rientrante ha fatto spegnere internet per tacitare i sostenitori del suo avversario (dopo che Facebook si era già messa di mezzo oscurando un po’ di profili amici di Museveni, fucine, secondo il social, di fake news. Dall’America all’Uganda, i padroni della rete sono ormai esplicitamente anche attori politici). Inoltre ha fatto proteggere Wine da una mezza compagnia di soldati schierati attorno alla sua casa bloccando fuori casa ipotetici aggressori e bloccando dentro casa il “protetto”, così praticamente ridotto agli arresti domiciliari.  Storia di prepotenza e soprusi, peraltro non nuova nella storia di tanti paesi africani e non solo.

Lecito chiedersi dove investire una speranza di cambiamento. In Bobi Wine? Bobi Wine aveva attirato le simpatie dei giovani, in un paese dove l’età media è 16 anni (in Italia è 46) e l’80% della popolazione ha meno di 34 anni). Anche ammesso che le sue promesse fossero giuste e credibili, non sarebbe bastato che andasse al potere. Comunque gli è stato impedito.

Investire la speranza nel rispetto delle regole e nella correttezza delle elezioni? Certo che sarebbe giusto. Ma qui le regole i presidenti se le fanno ad personam, e le garanzie internazionali latitano. All’Onu va benissimo pagare profumatamente il disturbo a uno che mette a disposizione campi profughi per le masse di migranti sudanesi. Che bisogno c’è di osservatori?

Allora speriamo negli Stati Uniti, in fondo sono il faro mondiale della democrazia, tolto di mezzo Trump. Ma gli Usa si tengono ben stretto un Museveni che gli vende cospicue truppe per le missioni anti-terrorismo islamico. Da Reagan a Trump, passando per i Bush, Clinton e Obama, gli hanno sempre steso tappeti rossi, e neanche tanti turandosi il naso.

E allora in Uganda come in Togo, in Guinea come in Nigeria ci sono vecchi presidenti a vita che non li butta giù nessuno. Che poi a buttarli giù, come hanno fatto con Saddam Hussein e con Gheddafi, non è detto che le cose si aggiustino.

Mercoledì scorso su questo giornale lo scrittore Luca Doninelli ha affermato, in una riflessione di carattere generale, che “a salvarci saranno scintille di presenza, che sono ovunque… Una presenza umana, viva, magari sconfitta dalla storia… ma capace di insinuare nei cuori la nostalgia del vero”. Dalle quali, aggiungo, si costruisce (sì, sono d’accordo, non si ri-costruisce, non si restaura, ma si genera) una vera e creativa cultura sussidiaria (vedi l’editoriale di Giorgio Vittadini e Enzo Manes del 15 gennaio), l’unica che può dare anima e sostanza sia alle democrazie semi-abortite all’africana, sia alle blasonate ma imbolsite democrazie occidentali.

Thank you, brother Elio.