Dopo la crisi di tangentopoli, i commentatori della politica e della morale pubblica italiana avevano pontificato su tre criteri per superare la crisi. Il primo prevedeva il passaggio a una leadership personalistica nei partiti basata sullo scontro periodico fra le parti. Il modello era impropriamente il presidenzialismo americano, pur contemperato da checks and balances, o quello francese, oppure un bipolarismo senza spazi, come avviene per le minoranze inglesi nel collegio uninominale.
Il secondo criterio era il rapporto diretto di questi leader con i singoli cittadini, nella percezione che corpi intermedi e partiti fossero un ostacolo all’espressione della volontà popolare, o peggio, corporazioni nemiche sia della persona che dello Stato. In questo contesto, lo stesso Parlamento e il suo potere legislativo veniva percepito, sia dai leader che dai pensatori, una perdita di tempo nell’approvazione di iniziative politiche che un dibattito avrebbe solo ritardato.
Il terzo criterio è stata la demonizzazione del concetto di interesse in politica, come se ogni istanza proveniente dai territori coincidesse con una sorta di lobbismo a favore dei privilegi di alcuni.
E ancora si è fatto credere alle persone che una concezione della politica, come arte del compromesso, coincidesse con l’esaltazione dell’intrallazzo e dell’inciucio.
Ne è conseguita la demonizzazione dell’avversario: a questo punto governare non significa più cercare di costruire il bene comune nella dialettica tra chi è stato sconfitto e chi ha vinto le elezioni, ma soltanto cercare di schiacciare l’avversario, magari anche grazie ad alleanze con altri poteri, come quello giudiziario.
Dopo trent’anni è il momento di tracciare un bilancio di questa concezione. A livello mondiale, la crisi della democrazia americana mostra che la riduzione della politica a scontro personale ha portato sull’orlo della guerra civile e alla perdita del senso di comunità nazionale. Anche dopo le elezioni si hanno milioni di persone che si odiano e non riconoscono più la legittimità delle posizioni degli interessi degli altri e la necessità di trovare compromessi per rispondere ai loro bisogni.
In tutto ciò, come dimostrano documentari come “Social dilemma” o il cammino della grande finanza, le lobbies di multinazionali non hanno neanche più bisogno di influenzare la politica per ottenere quello che vogliono. Mentre gli interessi legittimi dei cittadini (gli immigrati, i poveri, i piccoli imprenditori o risparmiatori, i nuovi disoccupati per la globalizzazione) vengono ignorati.
In Italia è in atto un processo simile in stile di farsa anziché di tragedia. Quasi tutti i leader sono stati fortissimi nelle campagne elettorali ma non altrettanto nel governare. Non è un caso: se non ti affidi a partiti veri, radicati nella società, rappresentanti degli interessi di corpi intermedi, capaci di formulare programmi frutto di concezioni ideali e politiche, non puoi governare con dei progetti di largo respiro. Ti contorni di yes man, li fai eleggere in Parlamento eliminando preferenze e non ricorrendo a vere primarie. Si è riusciti a umiliare il Parlamento e le commissioni dove il dibattito arricchisce le leggi. Ti sottrai al vero confronto delle vecchie tribune elettorali e dei comizi per affidarti a social, piattaforme informatiche, talk show urlati per l’audience.
E non si riesce più neanche a governare perché uomini senza ideali cambiano spesso opinione si muovono per interessi che sembrano personali. Soprattutto diventano impossibili veri programmi di lungo periodo su sanità, scuola, welfare, sviluppo economico. Si è arrivati a mettere in pericolo anche il Recovery Fund. Tutto questo perché le scelte fatte non sono basate su convinzioni così solide da essere aperte al compromesso e al contributo di tutti, anche di chi la pensa in modo diverso ma costruttivo.
C’è bisogno, da parte di tutti, di una vera e sincera autocritica sulle scelte di questi ultimi trent’anni. Va recuperato e magari rinnovato un modello di democrazia secondo gli insegnamenti di Tocqueville, dove la partecipazione alla vita pubblica non è solo legata al voto, ma alla costituzione di una società organizzata attraverso numerosi e diversi corpi sociali.
Non guardando il passato: non dobbiamo ricostruire il 1948 ma recuperare lo slancio dei costituenti e chiederci che cosa necessita la nuova epoca che viviamo.
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