Non solo Dante e non solo Pci. Quest’anno ricorre anche un altro anniversario: il quarantesimo della Laborem exercens, enciclica scritta da Giovanni Paolo II, di valore epocale: c’è da augurarsi che non passi sotto silenzio. La sua originalità consiste soprattutto in due linee portanti, tuttora attualissime: 1) essa affronta la questione sociale non innanzitutto nei termini tradizionali della giustizia distributiva, ma ponendo al centro il tema del lavoro (e il suo primato sul capitale); 2) considera il lavoro non soltanto in senso oggettivo (come fattore di produzione), ma innanzitutto in senso soggettivo (in quanto “come persona l’uomo è il soggetto del lavoro”, n. 6).
In altri termini il senso del lavoro è la realizzazione della propria umanità. Si legge nell’enciclica: “Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva”; “mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza sé stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo” (n. 9). Scaturiscono da qui la dimensione della solidarietà fra gli “uomini del lavoro” e il diritto alla giusta difesa della dignità del lavoro umano.
Nell’enciclica queste sottolineature non sono semplici affermazioni di principio, ma vengono indicate come criterio di orientamento e di giudizio delle scelte sociali, economiche e politiche: “L’uomo si sviluppa mediante l’amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo, creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni che oggi si prendono” (n. 11).
Negli anni 80 del secolo scorso si videro gli effetti di questi criteri nelle modalità di azione del sindacato libero Solidarnosc in Polonia. Ma anche nella ripresa di identità e di iniziativa dei sindacati latinoamericani di ispirazione cristiana, riuniti nella Clat guidata da Emilio Maspero e Luis Enrique Marius. Essi, guardando alla Polonia, ebbero la prova provata che la dittatura del proletariato è contro i lavoratori, e misero al centro dell’azione sindacale la relazione uomo-lavoro e non quella operaio-lotta di classe.
In Italia l’ottica della Laborem exercens contribuì a una nuova attenzione al valore del lavoro per la persona da cui, attraverso i Centri di solidarietà, si sviluppò una modalità nuova di approccio al problema della disoccupazione specialmente giovanile: una modalità che non riduceva la risposta a una questione di numeri e burocrazia, ma metteva in campo la costruzione di un rapporto umano tra chi cerca lavoro e chi può aiutarlo, accompagnandolo in un percorso.
La cultura della Laborem exercens e lo sviluppo maturo dell’esperienza dei Centri di solidarietà consentirono di affrontare con occhi diversi e con capacità costruttiva il lavoro flessibile e interinale. Comunemente il lavoratore interinale era considerato come una sottospecie del lavoratore dipendente, privo di una propria soggettività autonoma. Sindacalisti italiani della Cisl, attivi nella Felsa (Federazione lavoratori somministrati, autonomi e atipici) sono partiti da una concezione culturale diversa: quella che appunto considera positivamente il lavoro come un bene dell’uomo e quindi punta a creare le condizioni per cui esso sia vissuto come un’opportunità. Così hanno messo in campo un’azione sindacale fatta di relazioni tra persone, incontri, ascolto, invito agli “atipici” a mettersi insieme, coinvolgendoli come protagonisti nella difesa della loro dignità. Esercitando così una rappresentanza reale e non formale o fittizia.
Questi esempi, seppur solo accennati, possono dare l’idea di quanto sia feconda la visione culturale di quella enciclica. Anche in relazione alla situazione del nostro Paese e alle scelte che è chiamato a compiere. Sfruttamento del precariato (anche da parte dello Stato con gli insegnanti), disoccupazione giovanile e non solo (il blocco dei licenziamenti non durerà ancora per molto), formazione professionale in diverse regioni obsoleta, mancanza di politiche attive per il lavoro, vecchie e nuove povertà, e tutte le conseguenze della pandemia configurano una nuova grave questione sociale. Non basteranno assistenzialismo, ristori e incentivi all’economia (e tasse). È fondamentale, e lo sarà sempre di più, la cura e la promozione del fattore umano, dell’uomo appunto soggetto del lavoro, dell’uomo laborem exercens. Non è un dettaglio. È il centro della questione sociale italiana.