La sfida di Biden per l’unità passa dallo straniero

Nel suo discorso di insediamento Biden ha puntato molto sulla parola unità. Per raggiungerla dovrà lavorare molto anche sulla politica migratoria

È stato un buon discorso, un eccellente discorso. E le parole contano. Non è la stessa cosa parlare di unità e di superamento della guerra incivile che è di fronte agli statunitensi (possiamo estendere il conflitto a tutti gli occidentali) e sostenere che il Paese subisce una carneficina. Le parole sono importanti, però non sono tutto. Non è facile superare quello che alcuni chiamano un nuovo sistema feudale, determinato dal suprematismo della destra, da un cristianesimo nazionalista, da un elitismo della sinistra opposto dell’uguaglianza, da nuove caste. È un problema, come per tutto l’Occidente, di rifondazione nazionale. L’unità, infatti, si percepisce nella relazione con l’altro, con l’estraneo.

Una delle ultime formule con le quali gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente di aver bisogno degli altri fu il “Bracero Program”, un programma che, durante la Seconda guerra mondiale, accolse i braccianti che arrivavano dal Messico. Il programma è cessato nel 1965, anche se continuava a mancare manodopera. Il Paese che si è costruito con le migrazioni, 55 anni fa fu uno dei primi nel restringere l’accesso legale degli immigrati. Da allora ci sono state eccezioni, come quella di Reagan, che portò alla regolarizzazione di tre milioni di immigrati illegali, ma dal 1996 i molti immigrati che si trovano in una situazione irregolare non hanno avuto praticamente la possibilità di regolarizzare la loro posizione. Nemmeno il progressismo di Obama ha migliorato la situazione: il Presidente Democratico si trasformò, di fatto, in un “deportatore in capo”, espellendo quasi due milioni di persone.

La mancanza di una strada per la regolarizzazione e la politica aggressiva di Trump hanno creato tre livelli di migrazione negli Stati Uniti. Il primo è quello degli undici milioni che vivono da tempo irregolarmente nel Paese, facendo lavori essenziali, come si è visto nella pandemia, e pagando le imposte che, secondo alcune stime, ammonterebbero a 11 miliardi di dollari. Di questi undici milioni di illegali, la metà sono messicani e due milioni centroamericani, un fenomeno quindi soprattutto ispanico. Il secondo cerchio è dato dai richiedenti asilo, cioè migranti non economici. A differenza di quanto succede abitualmente in osservanza della legislazione internazionale, questi richiedenti asilo si trovano in Messico, perché non sono potuti entrare negli Stati Uniti. In alcuni casi sono in campi per rifugiati, come quello del Rio Bravo. Il terzo cerchio è formato dai cortei di coloro che vengono  dall’Honduras e da El Salvador.

Nei primi giorni del suo mandato, Biden ha voluto offrire soluzioni per tutte e tre le tipologie. Sarà difficile che si possano concretizzare tutte, ma gli ordini esecutivi sono già in atto. Il nuovo Presidente ha rafforzato il DACA, il programma che difende dall’espulsione i dreamers, coloro che sono arrivati da bambini, sono state annullate le misure violente di deportazione e non c’è più discriminazione verso i Paesi a maggioranza musulmana. È anche stata annullata l’emergenza nazionale che permetteva di destinare molte risorse alla costruzione del muro con il Messico. Il solo fatto che il muro abbia cessato di essere una priorità ha un alto valore simbolico: gli Stati Uniti non sono un Paese assediato dagli stranieri. L’insistenza sulla costruzione del muro è stata un meccanismo per semplificare i problemi cercando colpevoli.

Biden ha anche promosso un progetto di legge complesso e completo, che potrebbe rendere più degna la situazione delle persone che sono in uno dei tre cerchi. Per gli immigrati illegali residenti negli Stati Uniti si stabilisce un procedimento che, dopo alcuni anni, permetterebbe di ottenere la “green card”, la residenza, per poi giungere allo status di cittadino. Nel corso del processo verrebbero garantiti i diritti di lavoro e familiari. Se il progetto andrà in porto, si verrà a creare un sistema effettivo per richiedere asilo. Vi è anche un budget di spesa di 4 miliardi di dollari per progetti di sviluppo nell’America Centrale per rendere meno necessaria l’emigrazione.

È un programma di massima e se andrà avanti sarà una delle cose più importanti della presidenza Biden. Solo l’averlo annunciato rappresenta un gesto decisivo. Per ricostruire l’unità interna è necessario rompere la dinamica che trasforma chi viene da fuori in un capro espiatorio.

Per compiere questa svolta storica nella politica migratoria, Biden ha di fronte due problemi. Uno è al suo interno: i membri della sua squadra hanno lavorato con Obama. L’altro è all’esterno: ci sono senatori Repubblicani, come l’ispanico Ted Cruz, che considerano questo cambiamento una dichiarazione di guerra. Alcuni ispanici, come quelli di origine cubana o venezuelana, hanno verso i migranti la stessa posizione di Trump e ci sono “nuovi americani” che sono bloccati in quello che alcuni chiamano un sistema di caste. Se Biden riuscire a rendere il Paese un po’ meno aggressivo verso lo straniero avrà fatto molto per quell’unità della quale ha parlato in una fredda mattina di gennaio.

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