Il “giusto salario” di Biden

Joe Biden sembra voler puntare su un provvedimento economico di grande rottura: un decreto per innalzare il salario minimo fermo dal 2009

L’innalzamento del salario minimo orario a 15 dollari è in queste ore al centro del confronto, negli Usa, fra il nuovo presidente Joe Biden e il Congresso riguardo il varo di un nuovo pacchetto di aiuti e stimoli fiscali anti-Covid. I repubblicani paiono disponibili a dare via libera a nuovi sussidi pubblici per almeno 1,4 miliardi di dollari, a patto che la Casa Bianca non insista nel voler varare per decreto l’aumento del salario minimo, intatto dal 2009 a 7,25 dollari all’ora. Che però Biden mediti di far partire da questo provvedimento-lampo la sua politica economica è noto fin dalla convention estiva che lo ha lanciato come sfidante di Donald Trump. Ed è evidente la spinta squisitamente politica a rivoltare in fretta quattro anni di trumpismo debuttando con una mossa forte sul piano economico-sociale: anche eventualmente al prezzo di una forzatura della civiltà americana, che vuole le mani dello Stato sempre lontane dal libero mercato, anche quello del lavoro.

È vero d’altronde che Biden ha sconfitto il presidente in carica – perdente più sulla gestione Covid che sui fondamentali economici – sostenuto da una vasta domanda di rebalancing: di riequilibro di tutte le crescenti diseguaglianze lasciate eredità di un trentennio di ultra-liberismo bipartisan. Non è un caso che il salario minimo sia a 7,25 dollari dai mesi immediatamente successivi il crac di Lehman Brothers e non sia mai più stato sfiorato (né risulta applicato in tutti gli Stati o settori). Né è sorprendente che Biden – almeno negli intenti – punti a raddoppiarlo in un solo passo: è chiaro che non sta promuovendo un “miglioramento delle retribuzioni” degli americani, ma il ritorno di un “giusto salario” in America. E quale scelta più coraggiosa di attaccare alla radice i gap a tre cifre percentuali fra i compensi dei top manager e quelli dei dipendenti di ultima linea? Quale terreno redistributivo più autentico del mercato del lavoro?

Profitti meno esorbitanti a fronte di salari più equi: questa è la proposta politica di Biden alla Corporate America. Alla quale poi la Casa Bianca chiederà certamente anche di pagare più tasse (anzi: soprattutto di rinunciare all’enorme elusione che ha impoverito anche il fisco Usa e quindi la capacità di spesa sociale federale). Ma nulla come un riequilibrio diretto dai redditi di capitale verso quelli da lavoro e sarebbe immediatamente efficace: anche nello stimolare la domanda interna nella prospettiva del rilancio post-Covid.  Sia da un punto di vista economico che sociale un milione di dollari distribuito fra migliaia di cittadini che tornino a bussare ad altrettanti negozi o ristoranti è preferibile alla stessa cifra impiegata per l’acquisto di un singolo aereo privato da parte di un singolo milionario da un singolo produttore.

Ma stabilire il “prezzo di mercato” del lavoro non sarebbe compito sussidiario delle parti sociali? In Europa certamente sì: mentre negli Usa la sindacalizzazione del mercato del lavoro è un fenomeno ciclico. All’inizio del terzo decennio del ventunesimo secolo l’onda è sicuramente a un minimo, ma l’inversione di tendenza è già iniziata: La nascita della prima union fra alcune centinaia di dipendenti di Google, nella Silicon Valley, è stata presa sul serio anzitutto dai vertici di Mountain View: che hanno cercato di contrastarla. Si può star certi che invece Biden cercherà di favorire in ogni modo il rilancio dei corpi intermedi dei lavoratori: il “giusto salario” lo può e lo deve decidere un mercato sano dentro una società solida.

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