Ad inizio anno nuovo non ci lasciamo alle spalle gran che: siamo nel pieno della crisi e non abbiamo ancora realmente svoltato l’angolo. Davanti ci sono ancora mesi complicati, e più i giorni passano più sembra chiaro che il vero limite è nell’azione del governo.

Ubriacati dalle psichedeliche mutazioni di colore che il Paese e le Regioni subiscono, passando dal giallo al rosso con motivazioni degne della Pizia di Delfo, solo per congelare la mobilità e mascherare un’ingiustificabile inerzia, la sensazione di stordimento che accompagna le giornate non è neppure più mitigata dai maghi della comunicazione che hanno, in questi mesi, costruito la narrazione della guerra al virus come unica priorità.

Ha funzionato nei primi mesi ma ora è stantia, evidentemente falsa. Fare i bravi, chiudersi nella bolla virtuale che ci avvolge e ingabbia non sta producendo risultati. I dati dei contagi restano invariati, le inefficienze tutte non possono più essere addebitate al virus in sé, i ritardi e gli strafalcioni sulla programmazione della ripresa hanno dei responsabili chiari. La finanziaria appena approvata, 40 miliardi di spese, si perde in mille rivoli di benefici (dai rubinetti ai mobili), sembra partorita dalle peggiori coalizioni dei decenni scorsi. Incoerente, priva di disegno e visione, fatta per zittire con poco, o tanto, i clienti più chiassosi, dimostra che la narrazione da social ha però perso la bussola. Questa volta la legge, infatti, non ha un nomignolo. Dopo i vari ristori, riaperture, sblocchi e sostantivi vari da rilanciare con un hashtag, stavolta nessuno se la intesta.

E non è un caso. La fuffa mediatica si infrange come una mosca smarrita sulle vetrate chiuse dei negozi, sugli scalini dei municipi sprangati, sui banchi con rotelle che prendono polvere nelle aule vuote. Doveva essere un inverno quasi normale, con i ragazzi a scuola a far le corse in corridoi con i banchi nuovi, il plexiglass nei ristoranti e la burocrazia in fermento per i cambiamenti imposti dalla crisi.

Questo avevano raccontato: una ripresa, una ripartenza, un riavvio, un nuovo inizio. Tutte balle. Il Paese è fermo e le sue aree di sofferenza sono ancora lì. I giovani che non studiano e non lavorano aumentano, il Mezzogiorno ha ottenuto qualcosina, ma poco, come ammesso da Provenzano e resta abbandonato senza strategia unitaria; le imprese sono pronte a scaricare decina di migliaia di lavoratori, trattenute solo dal blocco dei licenziamenti e dalla Cig. Nessuna riforma seria in cantiere per la burocrazia, nessun progetto per una legge speciale per il Mezzogiorno per investire nelle aree depresse, zero interventi sulla giustizia o la sanità.

Ma la narrazione della guerra, si sa, non ammette disfattismi. La guerra prosegue accanto agli alleati. Con fiumi di proclami auto-incensatori sulla difficoltà del momento, la tentazione di ricorrere all’empatia artificiale del “siamo sulla stessa barca” per convincere gli uomini ai remi a spaccarsi la schiena nel mentre gli ammiragli vagabondano in un mare sconosciuto.

Lo smarrimento evidente è come al solito gestito con la minaccia del disastro. Che sarebbe poi il voto o una maggioranza diversa. Ma questi uomini sono passati da Bagnai a Provenzano senza pudore. In nome della realpolitik, non si comprende perché non debbano finalmente abbandonare il partito dei twittaroli (ben presente ovunque) per abbracciare il partito dei fatti. L’unica partito che serve ora davvero. Ora che la narrazione, gli spin sui social e la ricerca del consenso da sondaggi ha fatto già tutto il male possibile.

Ora andrebbe dimostrato che i fatti sono l’unica cosa che conta. E i fatti sono scritti con chiarezza nelle raccomandazioni della Ue. La riforma copernicana della burocrazia, il brutale efficientamento della giustizia, l’apertura di cantieri per opere essenziali alle prossime generazioni, il superamento definitivo del divario tra Nord e Sud. Un partito per i fatti che si assuma la responsabilità di fare davvero il bene del Paese e non si dimentichi di leggere le leggi che scrive (episodio che di per sé dovrebbe motivare le dimissioni di un paio di ministri), che non si compiaccia della super produzione di Dpcm letti con piaciona ricerca dell’ammirazione delle nonne.

Un partito dei fatti che lasci alle spalle ogni necessità elettoralistica per i prossimi due anni. Che dimentichi le elezioni locali, lasciando che sia un evento che riguarda i territori, e si concentri sulla risposta definitiva che il Paese deve dare per uscire dall’immobilismo da divano.

Il prossimo anno sarà quello della prova definitiva per le forze politiche che hanno ormai concluso il loro ciclo di garanzia durante la pandemia e devono gestirne l’uscita e la programmazione dei prossimi anni. Senza i fatti, senza che si modifichino profondamente le dinamiche del rapporto tra Stato e Regioni, senza la riforma integrale del sistema di governo delle decisioni delle burocrazia, ogni Governo diviene solo un inutile propagazione di se stesso che non serve al Paese.

I fatti sono l’unica bussola che può guidare nei prossimi mesi il Paese e dargli un visione che vinca sulla narrazione social, lasciando alle spalle, solo allora e definitivamente, un anno purtroppo indimenticabile, che ci ha resi più vulnerabili ma che ha anche dato a tanti la consapevolezza che il governo del Paese va affrontato con concretezza e competenza. Non con le abilità da piazzista su Facebook.