A Daniel si è spezzato il cuore la notte in cui ha dovuto abbandonare il suo villaggio. Un villaggio piccolo, chiuso e rozzo, in una valle che vive della campagna. Daniel pensa che abbiano rovinato la sua strada mandandolo a studiare in città: non gli interessa il progresso, ciò che gli interessa sono i casali bianchi, la conca del fiume, i prati e i campi di mais, il suono delle campane della parrocchia, il nome degli uccelli, il cimitero dove riposa, malgrado la sua giovane età, l’amico del cuore.

Daniel è il personaggio principale di El Camino (1950), probabilmente il romanzo più letto dello scrittore spagnolo più letto del XX secolo, Miguel Delibes, di cui si è celebrato qualche mese fa il centenario della nascita. Autore di molti lavori, è stato seguito con particolare attaccamento dalla generazione che più ha sofferto il Covid, la generazione che ha vissuto il dopoguerra, che ha visto svuotarsi la campagna e scomparire la cultura popolare, la cultura orale, il rapporto diretto con la natura, sempre difficile. È anche la generazione che ha visto la scomparsa di un certo uso della lingua, che si è fatta massicciamente urbana, che ha sofferto in Spagna ciò che in Italia Pasolini definì un genocidio culturale, e che ha cercato in Delibes il suono del castigliano di sempre, il mondo rurale perduto.

La lacerazione di Daniel è la lacerazione di molti, ma Delibes in El Camino non descrive un  mondo rurale idilliaco. Il romanzo racconta le avventure del ragazzo e dei suoi amici, il loro aprirsi ai dolori e ai misteri della vita, le loro discussioni “su queste cose che non si comprendono o non finiscono mai”, che fanno girare la testa, i loro amori, il loro incontro precoce con la morte. Riesce a ricreare lo sguardo e le inquietudini di quell’età nella quale l’infanzia si sta allontanando, in cui appaiono personaggi adulti feriti, quelli per i quali la vita è troppo esigente e spietata. C’è un fabbro vedovo che soffoca le sue pene nell’alcol, una bigotta moralista che vede sua sorella ingannata e sedotta da un uomo e commette il peccato che le sembra più terribile, un padre che perde l’allegria a causa della sua ossessione per il risparmio, una donna innamorata e non corrisposta che finisce per suicidarsi per dispetto, un oste in rovina. In tutti c’è una ferita, un dolore. Non sono solo la povertà o i brutti colpi della sorte. Tutti i personaggi sembrano segnati dalla malinconia di una mancanza d’amore.

Nel villaggio regna un feroce individualismo, “ognuno guarda troppo ciò che è suo e dimentica che ci sono cose che sono di tutti”. Solo ragazzi e ragazze si accoppiano, la domenica, nei prati. Ma quando tutto appare dominato da un formalismo e da una noia secolare, Daniel e i suoi amici sono testimoni di amori impossibili, amori maturi di persone per le quali la vita sembra già finita. Questo è uno dei punti di forza di Delibes in El Camino: racconta la comparsa di ciò che sembrava infinitamente improbabile e mostra come questi personaggi, nel ritrovarsi in amori tardivi, rifioriscano.

Delibes, inoltre, sa ritrarre con coraggio, in anni nei quali il franchismo sembra assicurare il successo di un certo cattolicesimo, la sua netta sconfitta. Don José, il parroco, che è riconosciuto come un santo, è preoccupato soprattutto per la mancanza di moralità dei suoi vicini, che occupano il poco tempo libero a ubriacarsi e amoreggiare nei campi. Gli viene in mente che per rendere più morale il villaggio potrebbe essere interessante aprire un cinema parrocchiale. L’iniziativa in principio sembra dare risultati e i vicini per qualche mese si divertono nel tempo libero in  modo più sano. Ma dopo i “film che non attentano alla morale” cominciano a dileguarsi e così passa a proiettare film più leggeri, ma censurando le scene considerate più scabrose. Di fronte alle proteste, i film vengono proiettati senza tagli, ma così il parroco si rende conto che il suo obiettivo di moralizzazione è impossibile e finisce per bruciare il proiettore del cinema.

A questo punto del romanzo, Delibes presenta la sconfitta di un cristianesimo ridotto a valori morali, che non fa i conti con la condizione umana e che non è capace di offrire un orizzonte ideale. Lo scrittore fa comprendere al lettore cosa riempie di verità il cuore quando la bigotta del villaggio, già avanti negli anni, si innamora. La donna, che fino ad allora era ossessionata da problemi di coscienza, confessa al prete che non può, non vuole smettere di desiderare che l’uomo che ama “la baci sulla bocca e la stringa tra le braccia fino a soffocarla”. Quella che finora era contro la vita, “finisce per scoprire che c’era una bellezza nel sole che si nascondeva tra i monti e nel volo tranquillo degli uccelli sotto il cielo limpido di agosto, persino nel puro e semplice fatto del vivere”.