Papa Francesco ha aperto ieri solennemente il Sinodo dei vescovi di tutto il mondo, inaugurando un impegnativo percorso che si concluderà nel 2023 e che intende coinvolgere anche la “base”, cioè le comunità cristiane dei cinque continenti. Un evento di portata epocale che però in Italia solo sul quotidiano dei vescovi ha guadagnato il taglio alto di prima pagina. Ci sono state le violenze no vax: la “notizia” quella doveva essere ed è stata. Dedicata al papa, in prima, sul maggiore quotidiano, è la vignetta con la scritta “Urbi et orbi”: ma il Papa lì parla di clima, non di Sinodo, e la fa dalla bocca spalancata di una enorme Greta che sembra fargli da pulpito. I pezzi nelle pagine interne, se ci sono, devono trovare l’appiglio per il titolo in qualche particolare aspetto, per esempio il ruolo della donna, importante fin che si vuole ma che non è il cuore dell’evento sinodale.

È solo un esempio, sufficiente però a mostrare un dato di fatto: la pertinenza della Chiesa rispetto alle faccende umane, e quindi le sue “notiziabilità”, è percepita solo all’interno del perimetro di gioco e del fascio di interessi predeterminati dalla mentalità prevalente. L’eventuale novità (parola che è sinonimo di notizia!) presente nella vita della Chiesa, così, non è colta e anzi è decisamente espunta.

È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa – viene da chiedersi con Thomas Stearns Eliot – o è la Chiesa che ha abbondato l’umanità?

Chiaro che le due affermazioni non si escludono a vicenda. Tuttavia sembra innegabile che Francesco intenda il cammino sinodale non perché si elaborino ulteriori analisi sulle dinamiche della secolarizzazione e della scristianizzazione delle società occidentali (storia peraltro vecchia assai) ma perché ci si interroghi, mettendo in discussione se stessi, sull’autenticità dell’essere Chiesa di ciascuno dei credenti e sul modo di guidare il popolo di Dio da parte dei pastori. Il papa invita infatti a scrollarsi di dosso formalismo, intellettualismo e immobilismo, tre vizi che paralizzano la vita ecclesiale come le tre fiere annichilivano il povero Dante nella selva oscura; e a rimettere in moto le dimensioni della comunione, della partecipazione, e della missione (Giovanni Paolo II usò quasi le stesse parole – Comunione e liberazione – per dire che sintetizzavano bene il cuore stesso del Concilio: impossibile non ricordarlo).

Poi Francesco ha detto un’altra cosa importante: che protagonista della faccenda è la Spirito Santo. Non per modo di dire: “Se non c’è lo Spirito, non ci sarà Sinodo”.

La messa in guardia dal formalismo dovrebbe far affiorare la domanda sulla pertinenza della fede rispetto all’umano, alla vita dell’uomo. Mons. Luigi Giussani già decenni fa si diceva “persuaso che una fede che non fosse reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, dice il contrario”. Questo lavoro, a quanto risulta, normalmente negli ambienti di chiesa non si fa. Cristo è considerato un presupposto, che rimane solo come ispirazione e non come forza attiva nell’azione, anche quella cosiddetta pastorale. La quale, se poi non funziona, è colpa degli altri (i “lontani”) che sono brutti e cattivi. La posta in gioco non è meno di quella designata dalla domanda sconvolgente riferita del vangelo di Luca: “Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?”

Il “promemoria” del papa sullo Spirito è altrettanto prezioso. Non conoscevo la frase di D’Annunzio – “io ho quel che ho donato” – fino a quando non l’ho sentita citare sempre da don Giussani, che la contestava come falsificante, perché invece “io ho quello che mi è stato dato”, anzi “io ho quello che sono stato donato”. La frase di D’Annunzio, curiosamente ma fino a un certo punto, ben si presta a descrivere l’animus – superoministico magari no, ma moralistico certamente sì  – del cattolicesimo del “presupposto”, variante clericale dell’ideologia moderna: data una premessa (analisi laico-scientifica o ispirazione etico-religiosa), dipende da me, dalla mia prassi, il suo inveramento. “Io sono l’impegno che ho profuso”, la generosità che ho messo nel fare del volontariato, eccetera.

Non fu così per gli apostoli: si sentivano bene perché il poco o niente che erano lo sentivano amato incondizionatamente da Gesù. Vivere – sentirsi persona, essere in compagnia fraterna, comunicare agli altri (comunione, partecipazione, missione) – era stare alla sua presenza. La loro domanda, era quella umana, di tutti: come si fa a vivere? E la risposta era nell’incontro con una eccezionale Presenza.

Ecco, è auspicabile che il cammino sinodale, per tutti – parrocchie (ammesso che tale cammino se lo filino), associazioni, movimenti, fedeli sciolti – ci affranchi dalla fascinazione dannunziana.