Sabato 9 ottobre 2021 ho partecipato al Graduation Day dell’Università degli studi di Bergamo. L’evento ha coinvolto circa 3mila studenti che si sono laureati nelle varie discipline umanistiche e scientifiche tipiche di un ateneo generalista. Cosa aveva di caratteristico questa giornata rispetto alle numerose proclamazioni avvenute in diversi atenei italiani nel 2021? Due cose essenzialmente. La prima che i neodottori erano stati costretti, per le restrizioni imposte dal contrasto alla pandemia Covid-19, a discutere la tesi a distanza. Uno dei momenti più belli del percorso di istruzione e della vita era stato confinato davanti al monitor di un computer, senza la presenza di familiari, amici, docenti, che rendono il momento della discussione della tesi e la relativa proclamazione unico nel suo genere. La seconda il luogo dell’evento: la Fiera di Bergamo, presso la quale nel marzo 2020 gli Alpini avevano allestito a tempo di record il loro ospedale da campo per ricoverare i malati di Covid-19. Uno dei luoghi simbolo della pandemia in Italia, essendo stata la provincia di Bergamo uno dei centri più colpiti.
È stato un momento bello, intenso, partecipato, anche commovente. In particolare mi ha colpito la gratitudine espressa dagli studenti al momento della consegna del diploma di laurea: “grazie di tutto” è stata la frase più ricorrente rivolta al rettore e ai docenti durante le congratulazioni fatte personalmente a ciascuno dei 3mila partecipanti. La gratitudine era per aver colto il tentativo dell’Università, come in tutti gli atenei d’Italia, per aver risposto non soltanto garantendo l’ordinario (le lezioni e gli esami online, ecc.) ma per aver tenuto vivo il rapporto tra docenti e studenti, che è un fattore essenziale dell’esperienza universitaria.
Ma, nel rivolgermi per un saluto a quelli di loro che si sono laureati in discipline economiche, dopo essermi complimentato, non ho potuto fare a meno di ricordare che la realtà di oggi impone che il percorso formativo non abbia un termine. Uno studio recente di Ernest & Young e Manpower, discusso durante l’evento EY Digital Summit, basato su tecniche di intelligenza artificiale, prevede infatti che nel prossimo decennio più dell’85% delle professioni cambierà. Si avrà una polarizzazione delle carriere verso profili con competenze alte e medio-alte, con un capitale umano dotato di cognitive e non-cognitive skills, in grado di operare all’interno dei continui cambiamenti che avverranno nella nuova economia digitale.
Lo studio ipotizza anche che per la quasi totalità delle attuali figure professionali (il dato presentato è il 94%!) saranno necessari investimenti in formazione, con l’obiettivo di completare il capitale umano, riqualificarlo e anche riconvertirlo. Nel prossimo decennio si avrà un gap strutturale tra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di laureati in uscita dalle università italiane di circa 40mila unità. È quindi la conferma che l’idea delle precedenti generazioni che la laurea sia la conclusione del percorso formativo è ormai anacronistica. E di quanto sia necessario mettere in campo programmi, anche congiuntamente al sistema delle imprese e delle parti sociali come riportato da Dario Cavenago e Mattia Martini, di formazione continua, disegnati sulle esigenze specifiche dei programmi di sviluppo industriale del sistema paese e delle strategie di mercato delle imprese.
Sorge a questo punto una domanda: ma vale davvero la pena, visto che si paventa un mondo del lavoro con formazione continua, che un giovane investa in formazione per conseguire una laurea? E più in generale, ha senso che la società investa risorse nelle scuole e nelle università per dotare le nuove generazioni di un capitale umano generalista, di tipo umanistico o scientifico? I tre premi Nobel per l’economia appena nominati (11 ottobre 2021), David Card (University of California, Berkeley, Usa), Joshua Angrist (Mit, Cambridge, Usa) e Guido Imbens (Stanford University, Usa) hanno risposto a queste importanti domande per la collettività. Per farlo hanno utilizzato una metodologia innovativa, denominata esperimenti naturali, che ha adattato alle scienze economiche e sociali l’approccio degli esperimenti randomizzati, utilizzati ad esempio in medicina per testare i nuovi vaccini o i nuovi farmaci *.
Tramite il metodo degli esperimenti naturali è possibile definire in modo scientifico la relazione casuale tra due variabili: intuitivamente, se sono i consumi che determinano il reddito di una nazione (secondo il sentimento popolare “spendo così faccio girare l’economia”), oppure se è il reddito che determina i consumi. Ad esempio in uno studio fatto con Alan Krueger, Angrist è partito dall’osservazione che persone con 12 anni di istruzione hanno mediamente redditi che sono l’11% più alti delle persone che hanno solo 11 anni di istruzione; inoltre, persone con 16 anni di istruzione hanno redditi che sono il 65% maggiori di quelle delle persone con 11 anni di istruzione. Ma per stabilire che sono gli anni di istruzione a determinare il reddito (e non viceversa), hanno sfruttato un esperimento naturale, basato sulla data di nascita delle persone negli Stati Uniti. I giovani statunitensi, a seconda dello stato in cui vivono, possono lasciare la scuola a 16 o 17 anni. Questo significa che i giovani nati nei primi mesi di ogni anno lasciano la scuola prima di quelli nati negli ultimi mesi, e quindi ricevono meno istruzione. Siccome la data di nascita viene decisa in modo casuale, studiare i redditi dei giovani nati nei primi 3 mesi di ogni anno rispetto a quelli nati negli ultimi 3 mesi è un esperimento naturale che permette di determinare il legame causale tra istruzione e redditi. Il risultato è ben illustrato dalla figura seguente.
Nel grafico a destra si nota come i giovani nati nell’ultimo trimestre dell’anno hanno beneficiato di un periodo di formazione più lungo rispetto a quelli nati nel primo trimestre. In quello a sinistra è evidente come abbiano anche poi ottenuto redditi superiori, per una stima pari al 9% di reddito in più per ogni anno di istruzione. L’invito ad impegnarsi nella formazione continua è ben motivato, sia per le singole persone sia per la collettività. Per le prime perché comunque consente un miglior tenore di vita; per la società perché la formazione continua è essenziale per lo sviluppo.
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* Come abbiamo imparato durante la pandemia Covid-19, la ricerca di un vaccino efficace è basata su un esperimento randomizzato. Le persone vengono suddivise in due gruppi: trattati, che ricevono il vaccino, e appartenenti al gruppo di controllo, che non ricevono il vaccino ma un placebo. Le persone non sanno chi ha ricevuto il vaccino e chi il placebo, e sono selezionate in modo casuale (random in inglese, da cui randomizzato). Nelle scienze economiche e sociali è difficile implementare esperimenti randomizzati perché i comportamenti delle persone e altri fattori che non sono osservabili dai ricercatori possono influenzare i risultati. Un modo per risolvere questo problema sono gli esperimenti naturali. Il ricercatore ha accesso a dati del gruppo dei trattati e del gruppo di controllo, ma le persone possono scegliere se far parte del gruppo dei trattati, e questo rende la selezione non casuale. La chiave per risolvere questo problema è individuare un fattore di assegnazione delle persone al gruppo dei trattati che sia casuale e non influenzato dalle persone stessi. Nell’esempio dello studio citato nell’articolo, è la data di nascita, che definisce il campione dei trattati (i nati negli ultimi 3 mesi dell’anno) e quello del gruppo di controllo (i nati nei primi 3 mesi dell’anno). La data di nascita è infatti un evento casuale e questo permette di implementare un esperimento naturale e osservare la relazione casuale tra anni di istruzione e reddito.
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