“Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote”. La presenza di voci diverse produce un dolce suono. La diversità genera  armonia. E Dante in questi versi lo dice del Paradiso che infatti, ben diversamente da come potremmo immaginarci, non è il luogo di una monotona uniformità, bensì di una dolce e desiderabile gloria delle diversità.

Ma convivere con la diversità genera fatica. Bisogna continuamente esercitare il giudizio, risvegliare i propri desideri, essere consapevoli delle proprie esigenze, confrontarsi, ascoltare, esporre ragioni, rischiare, studiare, approfondire. Troppo faticoso!  L’importante è che le cose funzionino! Non importa se ci fanno felici, se rispondono al desiderio del cuore, se ci appagano. Se l’amore è venuto meno, basta che la convivenza di coppia funzioni, se un figlio a scuola non si trova bene non importa, basta che alla fine tutto funzioni e sia promosso, se i poveri aumentano e gli immigrati continuano ad approdare sulle nostre coste noi non possiamo farci niente, se non sperare che il governo risolva questo problema. Desideri, passioni, interessi, affetti, tutto ciò che rende ognuno di noi irripetibile, è un patrimonio sempre più a rischio. Ci stiamo abituando a privilegiare il funzionamento delle cose, anche di noi stessi, anziché capire le ragioni e lasciarci interrogare dalle domande che la realtà ci pone.

In fondo, se, come aveva detto Pasolini nella sua ultima intervista del 1° novembre 1975, “tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo”, se quella “omologazione brutalmente totalitaria del mondo” avanza, forse la vita diventa un po’ più grigia, ma sicuramente meno faticosa, tranquilla nella comfort zone che ognuno si è costruito. Don Giussani nel 1987 aveva profeticamente descritto i rischi di una cultura appiattita e omologata. “Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano”. 

Se abbiamo a cuore la nostra vita, se veramente proviamo struggimento davanti a quello smarrimento dei giovani (oggi così drammaticamente evidente), forse possiamo provare a raccogliere i brandelli vivi del nostro desiderio, quelli che il nichilismo dilagante ha risparmiato o che qualche fortuito incontro ha risvegliato. E da lì ripartire. È la rinascita del desiderio che può segnare la vittoria sull’omologazione. Una vittoria concreta, fragile, che può anche incorrere in errori, la vittoria di uomini che si mettono insieme mossi dai propri desideri e sollecitati dai bisogni che la vita fa loro percepire. Ma questo mettersi insieme non genera percorsi univoci. Gli interessi, le inclinazioni, il modo di sentire il proprio rapporto con la realtà, e finanche con Dio, sono diversi. Così come le storie personali, le culture, i contesti ambientali, le circostanze. Dalle religioni ai partiti, dagli oratori alle cooperative, dalle opere di assistenza fino alle associazioni di categoria (!), tutte queste realtà sono nate perché persone si sono ritrovate a condividere una modalità, un accento, un’idea, con cui affrontare interessi, bisogni, passioni.

Siamo in giornate elettorali e circa un quarto dell’elettorato italiano è chiamato al voto. Dobbiamo augurarci che questi circa 12 milioni di nostri connazionali non si sottraggano a questa responsabilità. Perché anche votare è affermare il gusto di una diversità, di una idea e di un progetto che si ritengono utili e buoni. Qui scatta la bellezza del pluralismo che può far dire “sono così convinto della mia idea che capisco quanto anche tu possa esserlo della tua” e ancora di più “non posso realisticamente non mettere in conto che tu possa essere portatore di qualcosa che io non vedo ma che potrebbe essere un bene per tutti”. In questo semplice quanto paradossale realismo sta la possibilità di una convivenza libera e democratica.

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