“Voglio capire perché le vittime dell’ETA che hanno incontrato i terroristi dicono di essersi liberate. Hanno partecipato a questi incontri con riserve e paura, forse per un obbligo morale e per togliersi un peso di dosso”, mi dice la regista cinematografica Iciar Bollaín in una conversazione su Maxiabel, la sua ultima pellicola.
Il film, di cui tutti parlano in Spagna racconta la storia degli incontri di Maixabel Lasa con gli assassini di suo marito, Juan María Jáuregui, il politico socialista ucciso nel 2000. La storia è arrivata nei cinema contemporaneamente al rilascio in libertà, per aver scontato la pena, di alcuni membri della banda. Molti di loro sono accolti come eroi, senza alcun riconoscimento del male fatto. Un male che significa un migliaio di morti e molti più feriti, una mancanza di libertà difficile da immaginare, una perversione morale e una dannosità sociale che si comprende solo leggendo romanzi come Ojos que no ven (Occhi che non vedono) di Ángel González Saiz.
L’ETA ha smesso di uccidere già più di dieci anni fa, tuttavia il veleno seminato durante decenni continua a intossicare. Gli omaggi pubblici ai terroristi riflettono la volontà di vivere nella menzogna di un settore importante della società basca, una volontà che in molti provoca indifferenza. Senza una memoria giusta è difficile costruire il presente e il futuro. Per questo, il film di Bollain è uno strumento molto forte per delegittimare il falso racconto che si è costruito su una devastazione nichilista alla quale è stato dato un vestito politico.
Suona il telefono, ripetutamente, e Maixabel Lasa, senza che nessuno glielo dica, senza alzare il ricevitore, sa che hanno ammazzato suo marito. Perché sono anni che lo stanno minacciando, perché in realtà la morte era da molto tempo una compagna abituale. Restava solo da sapere il giorno e l’ora in cui l’ETA ti avrebbe trasformato in uno dei suoi obiettivi: è quanto descritto in una delle scene più impressionanti del film di Bollaín. L’ultima banda di terroristi attiva in Europa, ancora vent’anni fa, ancora dieci anni fa, toglieva in maniera arbitraria delle vite. Nella conversazione con uno degli assassini, Maixabel chiede perché avevano ammazzato suo marito. E non c’è risposta, non sapevano nulla di lui, era un semplice nome, un obiettivo senza volto e senza storia.
Gli incontri ebbero luogo dieci anni fa nella prigione di Nanclares de Oca e furono pochi, molto pochi. A differenza di quanto accadde con le Brigate Rosse o con altri gruppi terroristi degli anni ’70 italiani, furono assolutamente minoritari. Il film descrive bene come l’ETA, dentro le carceri, è stata e continua a essere una setta. Solo per un gruppo molto ridotto la permanenza in prigione è diventata l’occasione per riflettere su quello che avevano fatto. La “organizzazione” stava lì, e continua a rimanere, perché nessuno si facesse e si faccia domande, per chiudere ogni breccia che si apra nel cuore e per colpevolizzare lo “Stato repressore”. La battaglia tra ideologia e realtà, tra risposte prefabbricate e il dolore per il male fatto, pareva definitivamente perduta, fino a quando alcuni hanno riconosciuto ciò che era realmente accaduto. Non si può tacitare per sempre e in tutti quello che grida il cuore. Quelli che scoprirono che non vi era “liberazione del popolo basco”, né “indipendenza”, che potessero giustificare quello che avevano fatto, incominciarono a portarsi addosso una colpa troppo pesante. Incominciarono a umanizzarsi e sono questi pochi che mostrano con più chiarezza ciò che fu l’ETA.
I carnefici pentiti, consapevoli, e le vittime sono coloro che raccontano la vera storia di ciò che avvenne nei Paesi Baschi. Faccia a faccia, vittime e carnefici si raccontano la vera storia che tutti dobbiamo ascoltare: perché non guardare anche il male sul volto e nel cuore di quelli che lo commisero? Il viaggio che trasforma il terrorista che si giustifica in una persona che cerca la redenzione e il perdono apre una crepa nel bunker dell’ideologia. Non si capisce, se è sincero, perché spesso si abbia tanta paura di lui.
Si scatena qualcosa quando si chiede perdono e la vittima si apre liberamente e gratuitamente alla possibilità di offrire una seconda opportunità. La vittima, da quando ha sofferto il male, rimane vincolata a un’identità che non ha scelto; nell’incontrarsi con il carnefice pentito torna a essere quello che era prima, mi dice Icíar Bollaín. Forse riconoscere il male che si è fatto, la supplica di essere perdonati, l’espiazione e l’accettazione di questa richiesta di perdono creano uno scenario nuovo. I vincoli opprimenti provocati dal male cominciano a sciogliersi. È ciò che è accaduto con il processo di riconciliazione che ha reso possibile il ritorno della democrazia in Spagna. La riconciliazione è fondamentale.
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