100, 101, 102, … La sequenza dei numeri ricorda la conta dei cuccioli dalmata da parte di Peggy nel cartone animato “La carica dei 101” di Walt Disney. In realtà – come tutti sappiamo – si tratta del numero di anni derivanti dalla somma dell’età e degli anni di lavoro per accedere alla pensione di cui si sta dibattendo in Italia, in vista dell’approvazione della Legge di bilancio 2022. È uno dei punti di riforma richiesti dalla Commissione europea per poter accedere ai fondi del Recovery fund – Next Generation Eu. Un tema molto dibattuto, che deve tener conto di due fattori: (1) la sostenibilità del sistema e gli impatti per la spesa pubblica; (2) le giuste aspettative delle persone che hanno lavorato per tanto tempo e che desiderano un tempo di vita diverso. Ma non bisogna però dimenticare il segnale che mandiamo, disegnando una riforma delle pensioni, alle persone coinvolte e alle generazioni future. Vediamo questi aspetti nel dettaglio.
1) La sostenibilità del sistema e gli impatti sulla spesa pubblica. Come ben illustrato nel Rapporto Sussidiarietà e … spesa pubblica della Fondazione per la sussidiarietà, la spesa pubblica per le prestazioni sociali ammonta a circa 320 miliardi di euro, di cui circa 245 miliardi di euro per le pensioni (per vecchiaia, superstiti e invalidità), cui si aggiungono circa altri 25 miliardi di euro di assegni indennitari e assistenziali. Quindi la spesa pensionistica è pari a circa 270 miliardi di euro. I rimanenti 50 miliardi sono le prestazioni sociali di tipo assistenziale non legate a pensioni, invalidità, ecc. 270 miliardi sono quasi un terzo della spesa pubblica italiana, almeno come tendenza di lungo periodo, quindi senza considerare il boom di spesa pubblica post Covid-19.
Chiaramente, essendo il debito pubblico italiano una montagna, la spesa per le pensioni rappresenta un ambito cruciale per il rientro del debito in condizioni di sostenibilità. La riforma Fornero, allungando l’età pensionabile verso i 67 anni, aveva avviato un percorso sostenibile: la stima nel 2013 era che entro il 2020 si poteva ottenere un risparmio complessivo di 80 miliardi di euro nella spesa per le pensioni. L’allungamento dell’età pensionabile ha generato diverse proteste, che hanno portato nell’estate del 2018 il Governo gialloverde Conte a introdurre quota 100, fino al termine del 2021. In questo periodo è parso subito evidente che quota 100 fosse troppo costosa. Per questo la proposta attuale prevede un graduale innalzamento della quota di anni tra età anagrafica e anni di lavoro: appunto inizialmente 102 anni, per poi crescere gradualmente in futuro. La proposta non è ancora operativa, e ci sarà spazio per il Governo e il Parlamento per metterla a punto. Ma la tendenza è questa. Ovviamente vengono introdotte anche delle fattispecie di esclusione per i lavori usuranti. In sintesi, per la sostenibilità del sistema si è avviato un processo di innalzamento dell’età pensionabile, assieme al metodo contributivo pieno: gli assegni pensionistici saranno legati ai contributi versati durante il periodo di lavoro, con opportuna rivalutazione.
2) Le aspettative di un cambio nel tempo di vita. La crescita delle aspettative di vita, connesse al maggiore benessere raggiunto, ha generato un cambio di prospettiva nelle persone. La terza età diventa un periodo della vita anche abbastanza lungo, un vero e proprio terzo tempo, dopo la giovinezza (legata principalmente alla formazione) e la maturità (dedicata prevalentemente al lavoro). La terza età è un periodo in cui le persone rimangono attive, hanno accumulato un capitale umano elevato grazie alla formazione avuta in passato e all’apprendimento nei luoghi di lavoro. Hanno quindi ancora grandi capacità da spendere. Nello stesso tempo spesso devono rispondere a necessità familiari, come caregivers, sia verso i più anziani di loro (chi va in pensione a 62 anni con quota 100 potrebbe avere 25-30 anni di differenza con i propri genitori), sia verso le nuove generazioni, ad esempio i nipoti. Hanno desiderio di un tempo di vita diverso, meno legato a una dimensione frenetica, avendo passato il periodo della maturità con tanta mobilità legata al luogo di lavoro, con agende fitte, con poco tempo libero. Un ritmo di vita più rilassato, con meno mobilità (magari per viaggi ma non per impegni quotidiani), impegni, e con più tempo libero.
Ma proprio questo è il punto legato al segnale che stiamo dando con la riforma delle pensioni. Sia a chi sta per andare in pensione, sia ai più giovani. Davvero di fronte all’allungamento delle aspettative di vita, con tutto quello che persone di 65, 70, 75-80 anni possono ancora dare, dobbiamo pensare a un sistema pensionistico in cui la partecipazione attiva al benessere collettivo è completamente assente? In cui quello che si prospetta è semplicemente il buen retiro? Senza alcuna considerazione del ruolo svolto come caregivers? Disperdendo un capitale umano enorme, in grado di contribuire attivamente al benessere della popolazione?
Ecco allora una proposta, come spunto per il dibattito in merito alla riforma delle pensioni, anche per gli anni a venire. Perché non legare il passaggio dal periodo di lavoro a quello della terza età a un sistema misto, in cui la persona può liberamente scegliere di anticipare il periodo della pensione in cambio di alcuni anni spesi attivamente – con un orario flessibile – in attività legate alla produzione dei beni collettivi del territorio in cui vivono. Ad esempio, scuole, servizi assistenziali, fondazioni, attività amministrative locali, ecc. Anche la stessa attività di caregivers per gli anziani e più giovani. In questo modo la spesa pensionistica passerebbe da rendita – com’è adesso – a produzione di beni collettivi, e quindi componente attiva della ricchezza. Si verrebbe incontro al desiderio di un tempo di vita meno pressante, ma si farebbe sentire le persone più anziane ancora utili, senza disperdere il loro ingente patrimonio di capitale umano.
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