Per non morire di ecologia

La lotta contro i cambiamenti climatici è importante, ma non può passare da una concezione della natura e della biosfera che dimentica cosa sia l'uomo

L’inizio della COP26, la conferenza mondiale sul clima che si tiene a Glasgow, mette in evidenza la necessità di un’ecologia sociale, che ha poco a vedere con certe teologie o divinizzazioni della natura che non distinguono tra poveri e ricchi. Un aumento della temperatura al di sopra di 1,5 gradi fondamentalmente ha come vittime le popolazioni dei Paesi a più alta densità abitativa. Per questo abbiamo bisogno di un pianeta più sano, perché possano vivere meglio le persone, tutte le persone. E questo obiettivo non si raggiunge trasformando la natura in una madre redentrice o relativizzando nella biosfera il valore dell’io, dell’umano.

Le conclusioni della Banca Mondiale sono categoriche: se non si ferma l’aumento della temperatura, nel 2050 ci saranno più di 200 milioni di migranti che dovranno lasciare le loro terre, dato che in diverse regioni sarà diventato difficile abitare. La siccità e le carestie causeranno grandi movimenti di popolazioni e ciò accadrà soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Sarà uno degli effetti più visibili dell’aumento delle temperature tra coloro che hanno meno risorse per difendersi.

L’accordo raggiunto lo scorso fine settimana al G20 di Roma è insufficiente a contenere il riscaldamento del pianeta, in quanto consiste in una semplice dichiarazione di intenti. L’Accordo di Parigi del 2015 ha compiuto alcuni progressi: tra il 2000 e il 2010, le emissioni mondiali aumentarono in media del 3% all’anno, mentre nell’ultimo decennio l’incremento è stato dell’1%. Tuttavia, con le politiche messe in atto, nel migliore dei casi finiremo il secolo con quasi tre gradi in più. Per questo è cruciale che a Glasgow i “grandi inquinatori” – Cina, Stati Uniti, India e Unione europea – si impegnino a ridurre le emissioni. Nel caso dell’Ue sono stati fatti concreti passi avanti e le sue promesse sono le più verosimili. Esistono differenze tra i suoi Paesi membri, ma gli obiettivi (riduzione del 55% nel 2030 e neutralità climatica con zero emissioni nel 2050) non sembrano impossibili da raggiungere.

Gli Stati Uniti hanno compiuto una svolta importante con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, tuttavia non vi è un consenso generale nel Paese sulla politica ambientale. La Cina è, come sempre, un’incognita, ha fatto cambiamenti ma non si impegna a riduzioni nei prossimi anni. L’India non si è nemmeno pronunciata.

Il piano di contrasto al riscaldamento globale non può funzionare se non prevede un aiuto adeguato ai Paesi poveri. Senza i contributi internazionali per facilitare la transizione energetica, la riduzione delle emissioni finisce per condannarli al sottosviluppo. C’è bisogno di almeno 100 miliardi di dollari all’anno per questo tipo di aiuti, ma siamo ancora al di sotto degli 80 miliardi.

La battaglia per non continuare a deteriorare il pianeta, che è una battaglia per l’uguaglianza, ha poco a che vedere con un certo modo di intendere l’ecologia che culmina in un processo di trasferimento di sacralità: prima abbiamo creduto in Dio, poi nell’Umanità, e ora sembra che saremo costretti a credere in una madre natura che purifica i nostri sentimenti e affetti, riempie i nostri occhi di verde e spia perfino i nostri peccati. Se si radicalizza questa concezione, come hanno fatto alcuni con la cosiddetta “ecologia profonda”, la battaglia contro il cambiamento climatico non ha senso. Quando si considera la natura un “tutto” al quale si deve obbedire e l’uomo è visto come la massima minaccia, la conclusione è che non c’è bisogno di “un pianeta per le persone”, ma di “un pianeta senza persone”. Una conclusione che appare folle e assurda, ma ha una certa logica se si porta all’estremo l’idea di un conflitto irrisolvibile tra società e natura.  

La battaglia contro il cambiamento climatico ha senso se si recupera l’evidenza che nella biosfera esistono differenze. Non tutti gli esseri che popolano il pianeta sono uguali, al centro c’è l’uomo ed è per questo che ha senso lavorare per uno sviluppo sostenibile. Nonostante noi umani abbiamo sbagliato molte volte, rimaniamo la maggior forza creativa della natura e la ragione di ciò è che siamo “natura autocosciente”, come diceva lo statunitense Murray Bookchin, sostenitore dell’ecologia sociale.

La COP26 in corso a Glasgow rende palese come forse ci sia un eccesso di “ecologia teologica” e un deficit di politica verde.

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