MINNEAPOLIS – Ho appena letto un articolo inviatomi da un amico, “The changing face of social breakdown”, il volto mutevole del crollo sociale. Il genere di cose che non amo particolarmente. Un articolo apparso su una di quelle pubblicazioni legate al mondo dei “think tank”, in questo caso di matrice conservative. Navigando attraverso i dati di un’approfondita ricerca l’autore prova a capire cosa siamo chiamati a fare in una società in cui la “patologia della sregolatezza” (pathology of unruliness) è stata rimpiazzata dalla “patologia della passività” (pathology of passivity).

Più che il titolo (di un articolo che non avrei mai letto) è stato questo sottotitolo “patologico” a rubare la mia attenzione: dalla sregolatezza alla passività. In un paese come questo, dove l’esagerazione è sempre stata un punto di riferimento ed un parametro irrinunciabile – dai grattacieli alla conquista della luna, dalla dimensione delle automobili a quella di bicchieri e cucchiaini da caffè – un paese dove la deregulation è come una porta spalancata sulla prateria per chi volesse conquistarla, parlare di passività potrebbe sembrare quantomeno inappropriato.

Eppure tutti gli indicatori sociali sembrano puntare in quella direzione, cioè al ribasso: matrimoni, natalità (ormai al di sotto del tasso di ripopolamento), scolarità, lavoro, religione… In altre parole tutte le forme tradizionali in cui si è sempre materializzato socialmente il “desiderio di vita” sembrano languire.

D’altra parte, logicamente e a farci forse sentire un po’ meno ignavi, anche le brutture, come divorzi, aborti, gravidanze minorili etc. sono in calo. Chiaro: ci si sposa di meno, si desidera la vita di meno, il resto è una conseguenza. Ma c’è voluto il Covid per mettere a nudo e rendere tristemente visibile questa svogliatezza dell’essere, questa fragilità del desiderio che già covavano in noi. È che finché nella quotidianità si interagisce con altri in qualche modo ci si muove, magari ci si sbatte pure, ed essendo più o meno occupati a far cose si riesce anche ad evitare di chiedersi perché si fa quel che si fa. Ma il Covid, oltre a non essere l’origine di questa debolezza, non è neanche l’unica pandemia con cui dobbiamo fare i conti.

In questi giorni in America si parla tanto di quella delle droghe, soprattutto degli oppioidi. Abbiamo appena raggiunto la tragica pietra miliare di 100mila morti per overdose (maggio 2020 – aprile 2021). È l’anno più terribile di sempre, quasi del 30% più mortale di quello precedente, il doppio di decessi rispetto a 5 anni fa. Dolore fisico, dolore dell’anima. “Ah, look at all the lonely people…”; Ah, guarda tutte le persone sole…

Ogni volta che leggo queste storie, essendo io cresciuto (nel bene e nel male) a “pane&Beatles” penso ad Eleanor Rigby. Centomila persone sole che hanno vissuto la loro patologia di sregolatezza cercando senza mezzi termini una dipendenza che rendesse la vita vivibile o almeno sopportabile. Uno sregolato bisogno di “altro”, perché non si basta a se stessi.

Vedo spesso una mamma ed una bambina. La bimba, sua figlia, con sindrome di down. Con la stagione buona, ma anche adesso quando il tempo non è troppo inclemente (qua in Minnesota le temperature sono già invernali), le trovo piazzate ad un angolo di un ampio incrocio. Uno di quegli incroci della suburbia americana tra strade a tante corsie, alberi, prati e nessuno intorno eccetto le machine che vanno e vengono. Si piazzano lì e col sorriso stampato in volto salutano tutti mostrando alle auto che passano i cartelli coloratissimi che hanno portato da casa: “Love”, “Peace”, “Joy”, “Faith”. Gli automobilisti passano e vanno, certi strombazzando festosamente, altri salutando con gran gesti, altri ancora ignorando completamente le due “messaggere”, le due protagoniste del “think tank dell’incrocio”.

Il messaggio è cosi semplice da sembrare banale, ma non lo è affatto. Ci sono due persone che nel mezzo del via vai quotidiano, nel nostro rimbalzare continuo tra “patologia della sregolatezza” e “patologia della passività” ci invitano ad alzare lo sguardo, ad alzare il tiro rispetto alla vita, a guardarci l’un l’altro con uno sguardo più grande. Niente passività, solo gratitudine e gioia offerti a tutti.

Cos’altro dobbiamo fare? Cos’altro possiamo fare per rispondere alle patologie di oggi?

Come mi diceva un amico qualche giorno fa, dovunque io sia il compito non cambia. Siamo tutti chiamati a costruire una nuova civiltà.

Anche in un incrocio della suburbia americana.

God Bless America!

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI