Fubles.com è “un Social Network che permette di organizzare e gestire partite di calcetto (e non solo) risparmiando tempo e denaro. Mettendo insieme giocatori, partite e centri sportivi di una zona, Fubles permette a chiunque di iscriversi gratuitamente e organizzare partite con i propri amici o partecipare a partite già pianificate”.
Ricordo ancora molto bene quando, quasi quindici anni fa, un giovane studente del Politecnico mi venne a trovare raccontandomi di quest’idea simpatica, un po’ bizzarra, forse all’inizio anche naïf, ma che mi entusiasmò subito per due motivi. In primo luogo, un’idea che partiva da un bisogno vero, che conoscevo in prima persona, ovvero quello delle infinite catene telefoniche per organizzare partite di calcetto, molto spesso rimorchiando giocatori improbabili o sconosciuti, e che combinava tutte le potenzialità tecnologiche, dell'(allora) nascente web 2.0, promettendo un’esperienza di entertainment unica (ad esempio, commentando, valutando e connettendo giocatori). E poi, un team di giovani bellissimi da vedere, decisi, che si stavano divertendo, senza paura di sbagliare, che mi sorprendevano perché non passava incontro nel quale non avessi l’impressione che – rispetto alla puntata precedente – avessero imparato, fossero cresciuti, avessero sperimentato e fatto uno o più passi (salti!) in avanti.
La storia è ormai nota: sono cresciuti, lo fanno di lavoro e danno lavoro ad altri, hanno ricevuto diversi investimenti (anche da famosi venture capitalist) e organizzato eventi in tutto il mondo, forti di un network pazzesco sia tra i giocatori, sia tra gli operatori (centri sportivi, campi, ecc.), di un business model robusto e di una value proposition che ha attratto per diversi anni grandi marchi, da Adidas a Sky, da Red Bull a Carlsberg.
I casi come Fubles stanno crescendo tantissimo; si tratta del fenomeno della “student entrepreneurship”, l’imprenditorialità studentesca ovvero lo sviluppo di iniziative imprenditoriali da parte di studenti, laureandi e neolaureati. Forse qualcuno lamenterà il fatto che in Italia questa crescita non sia ancora pari a quella di altri Paesi, o a quella di cui il nostro sistema industriale avrebbe bisogno. Eppure, io vedo il bicchiere mezzo pieno.
Innanzitutto è opportuno guardare ai numeri del fenomeno, che negli ultimi anni è tracciato in modo rigoroso da AlmaLaurea. Un rapporto dedicato al fenomeno nel 2020 stima che il 7% dei laureati sia un founder (ovvero detenga quote di un’impresa neo costituita), percentuale che raggiunge quasi il 10% se si conteggiano anche i joiner (coloro che acquisiscono almeno il 10% di partecipazione in una neonata società in un momento successivo alla fondazione), mentre la percentuale stimata per i founder nel 2016 era poco sotto il 3%. Sebbene parte di questa differenza possa essere dovuta alla differenza tra i due campioni considerati e al metodo d’indagine, essa può tranquillamente essere presa come cifra della crescita del fenomeno.
È interessante segnalare, fra le altre, alcune caratteristiche delle “student startup”, sempre secondo di dati AlmaLaurea (2020): nel periodo 1995-2019, confrontate con le startup create in Italia, le student startup hanno avuto un tasso di fallimento assai più ridotto (44% contro 83%), hanno una forte matrice di leadership femminile (38% contro 23%) e rappresentano il 5,6% delle startup innovative [1]. E non si pensi che sia un fenomeno esclusivamente legato alle facoltà STEM (Science, Technology, Engineering, and Mathematics); anzi: la maggior parte degli student entrepreneur vengono da facoltà non-STEM. Da ultimo, colpisce un elevato orientamento verso la sostenibilità; se spesso mi capita di notare nei miei studenti e nelle generazioni più giovani in generale una passione verso i temi della sostenibilità, dell’orientamento a lungo termine, della cura dell’impatto anche pensando al proprio futuro lavorativo, proprio in coloro che si cimentano col processo imprenditoriale tale sensibilità risulta sempre più forte e intrecciata con l’attività stessa della startup. In uno studio pubblicato nel 2016, abbiamo analizzato una popolazione di student entrepreneur nascenti (cioè impegnati nel processo di costituzione della nuova impresa) nei settori dell’ospitalità e del turismo. Per questi studenti, proprio la motivazione di perseguire la cura per l’ambiente è risultato un fattore decisivo (per impatto e significatività statistica) nello spiegare l’intenzione di creare un’impresa.
Cosa spiega la crescita della student entrepreneurship? Sicuramente il contesto globale culturale è il driver principale. A differenza di quando mi sono laureato, dove esse non erano nel radar delle discussioni tra noi studenti e con i nostri docenti, e pertanto non dettavano l’agenda e le aspettative professionali per il nostro futuro, oggi parole come startup, unicorn, scaleup, venture capital sono di dominio comune, anche e soprattutto fra i banchi universitari. Basti pensare alle tante produzioni cinematografiche e multimediali intorno al fenomeno dell’imprenditorialità giovanile, tra cui una delle più recenti è “Own the room“, un documentario di National Geographic lanciato da Disney+, che testimonia come la figura dello “startupper” sia diventato un role model a livello globale.
Ma c’è qualcosa di più specifico circa il mondo universitario. La proliferazione di corsi di formazione imprenditoriale ha delle caratteristiche davvero sorprendenti. Non vi è ateneo o corso di laurea che non proponga moduli formativi, sia curriculari che sotto forma di summer school e programmi laboratoriali, tanto che lo stesso MUR (Ministero dell’Università e Ricerca) ha lanciato il programma dei “Contamination Lab” per favorire la diffusione e lo scambio di strumenti efficaci tra gli atenei e la creazione di un network di accreditamento. Oltre alla formazione d’aula, giocano un ruolo importantissimo le infrastrutture, sia fisiche (come acceleratori e incubatori), sia immateriali (quali testimonianze, storie ed esperienze che gli studenti possono conoscere in prima persona) sia finanziarie (come il fondo CDP per il Trasferimento Tecnologico).
Qual è la prospettiva per questo fenomeno? Ci sono tanti dati, e diversi studi, nonché innumerevoli casi che potrebbero essere citati per arricchire il quadro e fornire maggiori dettagli (e magari prossimamente lo faremo!). In questa sede mi accontento di segnalare quattro spunti.
1) Se le università hanno mostrato una buona capacità di mettersi in gioco in questi ultimi 15 anni, riconoscendo che la formazione imprenditoriale gioca un ruolo decisivo nell’assolvimento in senso più pieno del proprio compito educativo alla luce di ciò che il mercato del lavoro chiede, e di ciò che i nostri giovani innanzitutto chiedono a noi educatori e formatori, ancora molto rimane da fare. Come mostriamo in questo studio, fare formazione imprenditoriale non può limitarsi all’impartire nozioni e trasferire conoscenza; accanto ai modelli decisionali, ai criteri di valutazione a alla capacità di lettura del dato, occorre trasmettere quel senso del “perché”, quel gusto del chiedersi cosa muove – quali bisogni, problemi o desideri – ciascun tentativo di innovare e migliorare, incluso quello imprenditoriale. E per far questo – l’ho vissuto in prima persona in questi mesi – occorre mettersi in gioco come docenti, guardare in faccia i ragazzi, sfidarli e, in molti casi, riprogettare intorno a loro i nostri strumenti formativi.
2) Questi nuovi strumenti formativi diventano efficaci solo se inseriti in un’architettura che li accolga e li valorizzi a livello istituzionale. Occorre una mission chiara, delle risorse e un coordinamento esplicito da parte degli atenei, altrimenti gli sforzi, anche pregevoli e innovativi di diversi docenti, rimangono isolati e di modesto impatto. Mentre il numero di iniziative di supporto a startup nel mercato continua ad aumentare, la presenza di strumenti di accompagnamento nelle prime fasi della vita di startup studentesche che facciano leva su esperienza e trust dell’università è ancora limitata.
3) È importante che le famiglie si accorgano del potenziale che le traiettorie imprenditoriali offrono ai propri ragazzi. È comprensibile che una famiglia desideri veder realizzati, anche in termini finanziari, gli sforzi legati alla formazione dei propri figli. Eppure questo è possibile non solo con i percorsi lavorativi classici cui siamo abituati: c’è anche la creazione d’impresa (come i dati, tra cui quelli citati all’inizio, mostrano)! Senza contare che per molti studenti, l’avvio d’impresa rappresenta l’inizio di un percorso che li riporta poi come lavoratori, magari a capo di divisioni di ricerca e sviluppo o lancio di nuovi prodotti, all’interno di grandi organizzazioni o multinazionali.
4) Le imprese esistenti, piccole, medie e grandi, devono e possono continuare quel percorso di sensibilizzazione che ho osservato in questi anni, che le porta a relazionarsi con le student startup come un autorevole e spesso vantaggioso veicolo di innovazione o di scouting di talenti (portare nuove “teste” in azienda è la forma di innovazione più a portata di mano).
Si tratta di cambi di prospettiva non rivoluzionari, il cui alveo è già ben tracciato. Bisogna continuare la strada imboccata. Sarà interessante osservare fino a che punto la frizzantezza che caratterizza l’Italia nel panorama attuale, anche agli occhi degli osservatori internazionali, e anche facendo leva sugli strumenti messi a disposizione dal Pnrr, ci aiuterà in questo percorso.
[1] Il dato si riferisce al periodo 2013-2019, in quanto la normativa ha introdotto lo status di startup innovative nel 2021; il dato per il campione complessivo non è disponibile nel report AlmaLaurea, ma si può di certo affermare che si tratta di un numero assai minore.
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