“La voglia e il bisogno di uscire, di esporsi nelle strade e nelle piazze; bisogna ritornare nella strada per conoscere chi siamo”. Per amore di Gaber si può guardare senza il sopracciglio già alzato dello scettico a prescindere la “marea verde” di Glasgow, quei centomila che invocano la salvezza del pianeta, e quindi delle generazioni future. Prima di ogni altra valutazione – culturale e politica – è bene riconoscere in loro il desiderio di affermare un valore ideale, e dagli il benvenuto. Sono usciti dalle “case in cui ci nascondiamo” (tra social, smart working e divano-tv) e non hanno spaccato vetrine, e qualche slogan era pure simpatico, per esempio “anche i dinosauri pensavano di avere ancora tempo”. Il valore ideale di cui trattasi, poi, corrisponde a un’urgenza riconosciuta dalla maggior parte degli scienziati.

Il G20 di Roma alle spalle, la Cop26 di Glasgow a metà percorso: le decisioni politiche sono state prese, questa settimana tocca ai tecnici mettere a punto l’operatività.  Il summit dei capi dei venti Paesi più industrializzati del mondo (che non riguardava solo il clima), produttori del 79% delle emissioni climalteranti, ha condiviso di non superare gli 1,5 gradi centigradi di aumento medio della temperatura globale. Non entro il 2050 come si sperava, ma neanche 2070 come voleva l’India, né 2060 come voleva la Cina, ma “entro o vicino alla metà del secolo”. Intanto cento miliardi di dollari andranno a sostenere i paesi più vulnerabili. La politica è l’arte del possibile, non il poligono dell’intransigenza. Quando è politica buona, s’intende.

A Glasgow sono state prese decisioni limitate, ma qualcosa c’è. Qualcosa si è mosso di concreto sulla strada stretta, ma l’unica, della multilateralità. Esempio: lo stop, dal 2022, al finanziamento pubblico delle centrali a carbone è stato firmato da 25 Paesi (tra cui Usa, Canada e Italia). L’eliminazione del carbone entro il 2040 è stata condivisa da 23 Paesi tra cui Indonesia, Corea del Sud, Polonia, Ucraina. Accordi e soldi anche per l’agricoltura sostenibile e per aree marine protette. E altro ancora. Non è tanto, ma certo non è niente.

Bla bla bla. Tradimento. Questo il giudizio, da copione, perentorio e massimalista anche oltre quanto esigerebbe uno slogan, scandito da Greta & consorelle. Che fa coppia con l’altro: “Siamo noi i veri leader” (mondiali), sottinteso “non voi politici del bla bla”. Se la leadership è questa – senza offesa: un po’ grillesca – non c’è da essere ottimisti per il desiderio dei giovani, manifestanti (e non). Perché:

1) Un valore ideale che non si sottopone alla verifica della realtà, non rischia giudizi e impegni, o viene dismesso o diventa violento. Déjà-vu, no?

2) La realtà è complessa. La semplificazione aiuta a tenere insieme il consenso (chi non è d’accordo a “salvare l’ambiente”?), ma solo tener conto il più possibile di tutti i fattori permette un contribuito positivo e contrasta l’atteggiamento ormai diffusissimo che “io ho diritto, loro devono”.

3) Tutti i fattori vuol dire l’aspetto economico e sociale. Una transizione ecologica (change now, dice Greta), dalla sera alla mattina, ammesso che sia possibile, sarebbe un disastro economico (si fa presto a dire finanziamenti, ma chi paga?), sociale (quanti senza lavoro e scarti umani? quanti praticamente schiavi nelle miniere di cobalto del Congo? per dire) e forse anche ambientale (l’elettrico con cosa si produce? miliardi di batterie dove le smaltiamo? ecc.)

4) Il primo fondamentale agente ad essere chiamato a questa saggezza e a questa responsabilità, e da tenere ben da conto, è la politica. Che è dei singoli Stati, e non mondiale, a fronte di poteri economici e finanziari multinazionali che hanno in mano il pallino. Sparare sulla politica e prospettare un’altra leadership mondiale, mettiamo pure che sia retorico, non aiuta.

5) È impensabile uno sviluppo sostenibile “Stato-centrico” (tutto si risolve con lo Stato che decide e finanzia, questa sembra essere l’ottica – vecchia assai – di Greta & consorelle). Uno sviluppo sostenibile è necessariamente sussidiario; non può non coinvolgere le comunità sociali ed economiche “dal basso”, guardando i buoni esempi, sostenendoli, imparando dalla realtà a costruire modelli. Ecco le “verifiche e i confronti” (copyright Gaber) … che nella piazza di Glasgow non si sono però viste.

6) Alla vigilia della Cop21, nel 2015, uscì l’enciclica di papa Francesco Laudato si’. Assai laudata, allora; obliterata, now, adesso. Il documento parla di “ecologia integrale”, comprendente “la necessità dell’umanesimo, che fa appello ai diversi saperi, anche quello economico, per una visione più integrale e integrante. Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con sé stessa…” (n. 141). E poi: “…prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso… Emerge così una grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione” (n. 202).

Un cammino che comincia now ma non ottiene tutto now. A creare un’icona, come Greta e consorelle, se sei bravo, puoi fare anche presto. Ma dove vai? Per fare un cammino occorre almeno chiedersi che cosa dura nel tempo. E costruisce. Senza finire nella violenza o nella rottamazione dell’ideale.

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