La prossima settimana si concluderà la prima parte dell’anno scolastico, quella che tradizionalmente va da settembre a Natale. Si è trattato quest’anno del primo periodo da inizio pandemia in cui la didattica in presenza è tornata a prevalere sulla didattica a distanza. È lecito dunque provare a tracciare un primo bilancio, senz’altro incompleto, di quali siano oggi le questioni sul tappeto della scuola italiana, su come questi due anni abbiano cambiato la scuola e sull’effetto che questo lungo stato d’emergenza ha avuto sui ragazzi.
Certamente non mancano rilievi tecnici inerenti il modo con cui le istituzioni hanno deciso di affrontare l’epidemia nel mondo dell’istruzione, come non mancano osservazioni sul livello degli apprendimenti e sulle mille carenze che quotidianamente segnano la vita di un istituto, ma c’è un dato – su tutti – che balza agli occhi: le misure di tracciamento e anticontagio, per come sono state pensate e declinate nelle scuole, hanno spesso rappresentato un’ulteriore complicazione della relazione tra docenti e studenti. È come se con la pandemia, invece di andare all’essenziale, si fosse aggiunta un’altra premessa da porre prima di affrontare l’unica vera questione che dovrebbe appassionare chi si occupa di scuola: il desiderio degli studenti.
Così, è come se alle scuole venisse detto che prima di occuparsi di quelle domande, di quel desiderio che è la luce che tiene accesa la scuola, occorra occuparsi di realizzare altro: un piano di miglioramento, un piano triennale dell’offerta formativa, un curriculo, un documento di valutazione, un format di piano educativo individuale, un format di piano didattico personalizzato, una programmazione, un cronoprogramma, una progettazione per competenze, un piano per l’educazione civica e, infine, una serie di misure da mettere in campo per tracciare i casi e fronteggiare i contagi.
È come se alla complessità della realtà la scuola non rispondesse più riprendendo in mano il punto dirimente, quel rapporto tra l’adulto e lo studente che supera ogni pedagogismo e ogni ansia da valutazione, ma aggiungesse sempre un’altra premessa, un altro adempimento, quasi che l’educare fosse il compiersi di questi adempimenti.
Tutti coloro che vivono la scuola, a vario titolo, sono testimoni che oggi ciò che serve non è una nuova regola, ma un luogo: i ragazzi hanno bisogno di un luogo, di vivere e sperimentare un luogo in cui poter dire se stessi e dove poter essere presi sul serio nel desiderio più profondo di bene e di felicità che ciascuno di loro si porta appresso.
Questo non vuol dire che si rinuncia alle attenzioni derivanti dall’emergenza sanitaria o che non si tenta di mettere insieme un’offerta formativa condivisa e credibile, ma significa che tutto questo non sostituisce e non può occupare il tempo dell’insegnamento. Quel tempo che non si conclude in classe, ma che in classe si apre per diventare sguardo nei corridoi, parola all’intervallo, condivisione nel pomeriggio. Parafrasando una frase di qualche anno fa, oggi si potrebbe dire “togliete pure via tutto, ma lasciateci liberi di (tornare) ad educare”.
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