Alla fine Draghi e il suo governo hanno dato la risposta attesa. Con l’emendamento in approvazione nella legge di bilancio, i Comuni in difficoltà entrano a pieno titolo nel sistema di supporto finanziario in cambio di riforme, mutuando il sistema che lo Stato ha inaugurato nei suoi rapporti con l’Unione Europea attraverso il Pnrr. L’auspicio lanciato su queste pagine qualche mese addietro pare abbia trovato la sua concreta attuazione. Una somma significativa verrà girata agli enti locali in difficoltà, che potranno spenderla, senza che costituisca debito, in cambio di riforme strutturali al loro sistema di gestione immobiliare e di riscossione. Pena, in caso di insufficiente applicazione, l’aumento in deroga delle aliquote Irpef locali e l’istituzione di nuove tasse per sopperire ad eventuali mancati introiti.
La somma più consistente, circa 1,3 miliardi di euro in vent’anni, andrà alla città più iconica e più in difficoltà. Napoli riceve un robusto sostegno annuale, circa 90 milioni, per poter cofinanziare la spesa e avviare una spirale virtuosa di investimenti.
Del resto, non si poteva lasciare che la terza metropoli italiana fosse agli ultimi posti come qualità della vita senza essere di fatto complici del lassismo e della cialtroneria che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Draghi ha una visione nitida di quanto questa operazione fosse essenziale per invertire la discesa delle grandi metropoli in difficoltà e quanto sia essenziale il Mezzogiorno per incrementare il Pil del Paese.
Ora inizia una fase diversa, anche nella narrazione, con tante cose da fare. La priorità è incrementare la riscossione delle imposte locali per portarla a tassi accettabili. Il che significa rafforzare il tasso di legalità e di controllo dei contribuenti. Impegno, dopo l’era del non-sindaco de Magistris, non semplice. Inoltre Invimit, la partecipata del Tesoro, si occuperà dì valorizzare e liquidare parte del patrimonio edilizio, provando a fare ciò che il Comune non era oggettivamente in condizione nemmeno di progettare.
Ma queste operazioni di ristrutturazione dello stato patrimoniale, per ogni entità economica, sono una pre-condizione necessaria, ma non sufficiente. Agire sul conto economico, incrementando i flussi in entrata, è essenziale, ma per avere un risultato accettabile dovrà aumentare la base imponibile attraverso l’emersione di patrimoni oggi non tassati e incrementando, anche e soprattutto, il reddito pro capite disponibile. Solo un popolo più ricco può pagare di più in tasse senza essere strozzato.
Una parte essenziale del nuovo percorso sarà quella di rifondare il patto civico tra cittadini e amministratori. Si chiederà di più a tutti: ai cittadini, che dovranno pagare, ma anche agli amministratori, che non potranno più nascondersi dietro la litania delle tasche vuote. Inoltre, per la prima volta dopo più di un decennio, questa dinamica potrà rompere lo schema consociativo che ha caratterizzato i plurimi fallimenti della città e del Paese. Invece di crogiolarsi nella dinamica del non chiedere nulla per non dare nulla ognuno sarà chiamato a fare la sua parte.
La dinamica è del tutto nuova, un inedito per il Paese. La stagione della contrapposizione competitiva tra pezzi di società è stata un tabù che ha ingessato il Paese, tenendo tutti assieme in un magma indistinto di interessi, con ciascuno fermo nel tenere la propria pozione di presunto vantaggio. Il dinamismo tipico delle fasi di crescita è stato soffocato dalla spirale consociativa e ha prodotto il rallentamento dell’economia e la pietrificazione della società. La politica ne ha giovato prendendo le difese di gruppi di interesse spaventati dai cambiamenti. Ha fomentato la rabbia o la paura e ha assunto acriticamente le difese di pezzi di società immobilizzati nello status quo. Le politiche di gestione del Mezzogiorno, e dell’intero Paese in molti casi, hanno risposto a questa esigenza di “stare assieme” non come corpo civico e politico, ma come un gruppo di naufraghi aggrappati alla stessa zattera.
Le condizioni politiche attuali, però, mettono a disposizione una barca a vela più che un pezzo di legno nell’oceano. Bisognerà trovare la rotta e ciascuno avrà la responsabilità di gestire le manovre che gli spettano per far avanzare il vascello nelle acque della tempesta in corso. Non sarà semplice, perché l’abitudine a farsi trascinare dalla corrente è forte e nel tempo tante competenze, nel Mezzogiorno, sono andate smarrite. Il Mezzogiorno ha troppo spesso invocato un miracolo del cielo e troppo poco spesso si è reso protagonista di scelte collettive coraggiose. Rimettere in sesto la ciurma e avanzare nella rotta significa ristabilire regole, mansioni e responsabilità. Premiare il merito e abbandonare pratiche scorrette che portano all’affondamento.
Pare poco quel che Draghi ha messo sul piatto, ma si comprende che non lo è per il suo valore simbolico e per il ruolo che assegna alla politica. Un messaggio chiaro che può essere autenticamente rivoluzionario e riformista al tempo stesso.
Ma saprà un gruppo di naufraghi mettersi alla tolda e imparare a essere un equipaggio, riscrivendo regole comuni? La sensazione è che qualcosa si stia effettivamente muovendo, seppur a fatica. Ci sarà resistenza e furbizia ancora sotto traccia. Molti penseranno che con questi spiccioli si potrà sfangare qualche anno e restare dove si è. Ma chi è al governo, del Paese e del Mezzogiorno, sa che stavolta la velocità degli altri sarà raddoppiata e i divari saranno abissali se non verranno colmati, condannando tutti a farsi trascinare dalle correnti in bocca agli squali invece che a seguire una rotta nuova verso il benessere. E Draghi non ne avrà colpa. Almeno lui.
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