Suona Alexander 23, mentre sfoglio vecchi articoli di giornale. Con voce soave e un po’ infantile inizia la canzone IDK You yet (Non ti conosco ancora). “Come ti può mancare qualcuno che non hai mai incontrato? Ho bisogno di te ora, ma non ti conosco ancora. Possiamo incontrarci presto, sono rinchiuso nei miei pensieri?”. Il cantautore nordamericano confessa la sua attesa, la sua urgente attesa e richiama alla mia memoria altri versi antichi, ma non riesco a ricordarmi di chi siano.
Mi soffermo su un articolo del New York Times di qualche mese fa, dedicato alla languidezza, di Adam Grant, uno psicologo statunitense. Afferma che l’emozione dominante nel 2021 è la sensazione di noia e di vuoto. Viviamo le giornate guardando ciò che ci accade attraverso un parabrezza appannato. Non ci manca l’energia, non siamo disperati, semplicemente “ci sentiamo senza allegria e senza scopo”, languiamo. L’articolo perde di interesse nei successivi paragrafi: dopo aver descritto con precisione uno stato di insoddisfazione, Grant offre una serie di consigli che sfiorano il fai da te e che sono inutili. Se il vuoto potesse essere riempito concentrandosi su un piccolo obiettivo o limitando certi comportamenti sbagliati, la languidezza sarebbe molto facile da superare. Ma la sensazione di noia e di vuoto è qualcosa di più serio, tanto serio che “ti fa mancare qualcuno che non ha mai incontrato”.
Continua a risuonare la canzone di Alexander 23, mentre passo a un breve saggio di Megan Craig, una professoressa dell’Università dello Stato di New York, pubblicato un anno fa sempre sul New York Times. La variante omicron gli fornisce una forte attualità, benché siano passati dodici mesi. “La stagione cambia con misericordiosa indifferenza, ci mantiene nell’incertezza. Vediamo salire il numero dei contagiati – scrive la professoressa – stiamo aspettando, aspettando il nuovo anno, aspettiamo un compleanno, un test per il Covid, un appuntamento con il dentista, una data per uscire a passeggio con gli amici, aspettiamo giustizia, vaccini, la cena, che a nostro fratello vada bene, che il cane impari un nuovo trucco, di poter fare visita ai nonni, aspettiamo una fetta di pane fresco, di finire la riunione su zoom e che la prossima cominci, aspettiamo il pranzo, l’allegria, il primo paio di bicchieri, aspettiamo che l’asciugatrice smetta di cigolare, aspettiamo un cambiamento, il futuro, notizie, tenerezza, pazienza per aspettare ancora”. Non ha perduto valore quello che diceva Megan Craig, “aspettiamo pazienza per aspettare ancora”.
Continua la canzone di Alexander 23: “Come può mancarmi qualcuno che non ho mai visto? Dimmi: i tuoi occhi sono marroni, azzurri o verdi? Ho bisogno di te, ma non ti conosco”. Ora sì, ora mi ricordo dove avevo ascoltato qualcosa di simile, non avevano musica, ma erano due canti. Uno è di Catullo, un romano che morì nel 54 prima di Cristo. Il poeta, influenzato dal senso del tempo degli etruschi, che non era ciclico ma lineare, è convinto che sia terminata un’epoca e descrive un matrimonio tra il divino e l’umano. Catullo aspetta, desidera la luce, una luce che si è spenta per colpa dell’uomo, aspetta una divinità misericordiosa che possa ristabilire la giustizia. Guarda al cielo e grida: “Oh dei, se è proprio di voi provare pietà, o se avete prestato soccorso a qualcuno nel supremo pericolo, volgete lo sguardo alla mia miseria e sradicate questa piaga dall’anima!”. L’altro canto è la quarta egloga di Virgilio. Un po’ più giovane di Catullo (morì nel 19 a.C.), anche Virgilio parla di una fine dei tempi, del sorgere di un nuovo secolo, della nascita di un puer (bambino), e anche delle nozze del divino con l’umano.
Da una cosa all’altra. La canzone di Alexander 23 e l’articolo di Megan Craig mi hanno fatto ritrovare una bella pagina di Marta Sordi sull’epoca di Catullo e Virgilio, nella quale dice che i poeti sono interpreti molto sensibili dell’angustia della tarda repubblica (languidezza è un sinonimo) e appare un’appassionata invocazione a una salvezza divina che non è risolvibile con la fine imposta da Augusto alle guerre civili. L’ansia per una nuova relazione con la divinità, il bisogno profondo di liberazione, confluiscono in un’invocazione al Dio presente, al Dio che visita l’uomo. “Ho bisogno di te, ma ancora non ti conosco. Possiamo incontrarci subito?”, canta la voce soave e un po’ infantile. Puer natus in Bethlehem.
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