In un bellissimo racconto contenuto nel Mondo Piccolo di Giovannino Guareschi intitolato “Mai tardi”, Carlino si ribella a un destino che sembra segnato, quello di portare avanti la fattoria del padre, un contadino duro e autoritario. Lascia la casa di famiglia, rompe i rapporti, si sposa con una donna che il genitore non stima, si costruisce lontano una discreta fortuna come geometra. La storia sembra quella di un tipico contrasto generazionale.
A un certo punto, però, il padre muore e lascia il podere in eredità proprio a Carlino. Di fronte al padre morto, il figlio sfoga tutta la sua rabbia per essere stato ignorato od odiato per tutta la vita. Ma a questo punto, un imprevisto cambia completamente il quadro. Carlino scopre che il padre ha conservato una grande quantità di documenti di tutto ciò che lo riguarda: pagelle, fotografie, riconoscimenti del suo servizio militare, articoli di giornale sulla sua attività.
Per la prima volta si rende conto di quanto il padre lo abbia amato, seguito, stimato. Un amore totale, mai confessato e vissuto per anni nella lontananza assoluta. «Ripensando al vecchio disteso sul letto nella grande stanza muta e deserta – scrive Guareschi -, per la prima volta nella sua vita sentì pietà per il padre e questo gli mise nel cuore un’angoscia sottile e penetrante. E gli vennero alle labbra sommesse parole di preghiera: “Gesù aiutatemi, fate che questa angoscia mai mi abbandoni e mi segua per tutta la vita. Fatemi soffrire come egli deve avere sofferto e nessuno mai lo seppe”».
Una barriera cade. L’incapacità di una vita a capire suo padre, l’impossibilità di rimediare, un dolore nuovo, mai provato, diventano sommessa preghiera che cambia il figlio nel profondo.
Una distanza viene coperta, quella che lo ha sempre separato da suo padre ma anche da se stesso. Il guscio delle sue convinzioni, delle sue immagini statiche, preconfezionate, si spacca. Può finalmente ricominciare a vivere mettendo a frutto l’eredità ricevuta, che non è quella del podere agricolo, ma quella di un’apertura alle relazioni che lo cambiano, con sé, con gli altri, con Dio.
Del cambiamento di sé dovuto a un grande dolore, quello della morte della madre, parlò anche Giovanni Testori: «Avevo toccato il fondo a furia di contestare l’accettazione della nascita, della vita, della morte. Poi, finalmente, cominciai a dire sì, e il muro di ribellione e di negazione si scioglieva man mano che accettavo la misura quotidiana della sofferenza e della mia indegnità che veniva abbracciata e accolta, per quella che era, dalla Volontà e dal Senso di tutto ciò che da sempre cercavo, l’amore, la luce, la coscienza, la ragione, la passione dell’esistere. Tutto questo, nell’accettazione della nascita e quindi della vita, rientrava in me. Allora, il senso della nascita come fatto storico e fisiologico, che costituiva il fulcro dannato e maledetto dell’Amleto, del Macbeth e dell’Edipus, domandava un ripercorrimento, una mia rivisitazione».
Domandava, si potrebbe dire, l’attesa di chi può rendere presente chi sei. Chi sei oltre quello che pensi, quello che fai. Oltre la confusione e lo smarrimento. Ma anche oltre il successo e il riconoscimento.
Quanto profondo è il senso del Natale, e quanto ha a che fare con quella “tristezza che suona”, con quegli “occhi che chiedono di scusar”, come cantava Enzo Jannacci.
Quanto del nostro cammino di uomini ha a che fare con il dolore nascosto per quello che è impossibile rimediare con le nostre mani, quell’angoscia per il male nostro e del mondo che si trasformano in un’espressione cosciente “dell’urlo, della domanda, del grido umano che riconosce di non poter raggiungere autonomamente la risposta, accompagnato dalla speranza di dialogare con il Dio che ha posto l’uomo in questa condizione”.
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