Grande successo della nuova fiction Blanca, in onda su Rai1. Inusuale la protagonista Blanca, giovanissima: ha perso la vista a 12 anni in un incidente e ora, mossa da un profondo senso della giustizia e da un acuto desiderio di conoscere la verità delle cose e dei fatti che accadono, ha deciso di voler fare la poliziotta. In mezzo a mille difficoltà e ostacoli riesce ad infilarsi come stagista in un commissariato. Lei non vede, ma batte tutti nella capacità di fare esperienza della realtà. Perché ha imparato ad usare gli altri sensi, udito, olfatto, tatto. Allo stanco commissario che la vorrebbe sempre a mille miglia di distanza Blanca dirà: “La differenza tra me e lei è che io non posso vedere, ma lei non vuole vedere”.

Quante volte non vogliamo vedere perché le cose che accadono potrebbero smentire i nostri pregiudizi, oppure perché la realtà fa paura, fa male! O perché le nostre ideologie sono già sufficienti a raccontare il mondo senza che fatti, sofferenze, tragedie, vengano a scalfire la nostra tranquillità. La questione è seria, perché dobbiamo sapere se rinunciando a vedere ci perdiamo qualcosa oppure no. E soprattutto sapere che cosa ci perdiamo. 

Un intenso quanto drammaticamente entusiasmante romanzo dello scrittore spagnolo José A. González Sainz, da poco uscito in Italia, ha un titolo che la dice lunga sulla questione del vedere: Occhi che non vedono. Sono gli occhi che il protagonista scorge intorno a sé, occhi che non vedono perché accecati dall’ideologia (quella del terrorismo basco nella fattispecie, accecante come ogni ideologia, più o meno violenta che sia). Ma lui, Felipe, ha bisogno di vedere. La sua esigenza di verità insegue la realtà, ha bisogno di farne esperienza. In mezzo al dolore per il destino del figlio maggiore diventato terrorista, nella lacerazione del rapporto con la moglie anch’essa preda del potere falsificante dell’ideologia, Felipe si domanderà: “vogliono dirci qualcosa le cose, o semplicemente accadono e siamo noi quelli che implorano che qualcosa ci parli?”.

In questa struggente domanda, il protagonista fa esperienza di alcune grandi evidenze, perché una cosa lui sa e, con il cuore stretto, la squadernerà in faccia al figlio che sta per andarsene da casa: “che alcune cose son giuste in questa vita e altre sono ingiuste. Alcune cose sono verità, verità di quella buona, e altre non sono altro che pure menate e pessime fantasmagorie”. Ecco cosa ci perdiamo se rinunciamo a vedere. Ci perdiamo la verità, quella buona, quella che riempie il cuore e per cui si può rinunciare a tutto, anche alla vita. Ci perdiamo il rapporto con la realtà, perché ci accontentiamo dei pregiudizi o delle ideologie, ci perdiamo l’esperienza di ciò che c’è oltre l’apparenza delle cose, delle persone, di me.

Mai come oggi è evidente quanto bisogno ci sia di realismo e di gusto della vita. Bisogno di essere “in presenza”, delle cose e delle persone. Bisogno di vedere ciò che c’è, attraversando la paura che le cose e gli altri ci fanno. Perché al fondo c’è una grande domanda: il mondo, la realtà, è  per noi o contro di noi? Il dolore, il male, l’ingiustizia, ci annientano o ci sfidano? C’è qualcosa da scoprire oltre ciò che ci appare? E poiché non di rado capita di incontrare uomini, come Felipe o (si parva licet componere magnis) come Blanca, non annichiliti dalla durezza della vita ma in fondo lieti e in piedi nel mondo, viene la curiosità di scoprire perché sono così, nasce il desiderio di stare con loro per imparare a guardare e a vivere.

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