Sono stati recentemente presentati i dati aggiornati dell’Osservatorio sullo Smart Working, curato dal Politecnico di Milano. Si tratta di dati molto interessanti, che offrono una fotografia precisa ed affidabile dell’andamento del fenomeno Smart Working in Italia, soprattutto con la fine (speriamo!) della emergenza e dei lockdown dovuti alla pandemia Covid-19.
Nella fotografia presentata possiamo notare alcune luci, ma anche molte ombre. Iniziamo dai numeri assoluti: mentre prima del Covid-19 il fenomeno Smart Working era assolutamente di nicchia (circa 500.000 lavoratori in totale) concentrato su alcune particolari categorie professionali, con la pandemia c’è stata un’esplosione del fenomeno, che ha portato il numero dei lavoratori in Smart Working a superare i 5,3 milioni, con una componente importante dovuta alla Pubblica amministrazione.
Con la fine dell’emergenza e dei lockdown, il numero di lavoratori in Smart Working è diminuito, ma si è comunque stabilizzato su delle cifre molto significative: oltre 4,3 milioni di lavoratori, appartenenti a diverse categorie professionali. Ma qui occorre fare chiarezza: quanti di questi lavoratori sono effettivamente in Smart Working e per quanti invece non si tratta semplicemente di un lavoro da remoto, o telelavoro o, come viene chiamato nel mondo anglosassone, WFH (working from home)? La differenza è fondamentale. Infatti, il “vero” Smart Working (termine tra l’altro coniato nell’ambito degli Osservatori del Politecnico di Milano) è profondamente diverso dal semplice lavoro da casa o in remoto, ma viene definito “un nuovo modello di organizzazione del lavoro, fondato sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati» (M. Corso).
Per implementare il “vero” Smart Working, quindi, sono necessari profondi cambiamenti nell’organizzazione delle attività aziendali e in particolare nella gestione delle risorse umane, cambiamenti che solo poche imprese hanno effettivamente iniziato ad attivare. Si noti che, come emerge dai dati dell’Osservatorio, sono soprattutto le grandi aziende che hanno attivato progetti di Smart Working (81%), mentre solo nel 53% delle PMI il lavoro da remoto fa parte di un progetto di Smart Working strutturato o informale. Questa differenza sottolinea la difficoltà, da parte delle PMI, di adottare modelli organizzativi innovativi e, data la rilevanza della quota di addetti che lavorano nelle PMI, costituisce un ostacolo significativo alla diffusione di buone pratiche di Smart Working a livello nazionale.
Un discorso a parte meriterebbe il tema dello Smart Working nella Pubblica amministrazione che, salvo alcuni limitati casi virtuosi, è stato attivato in modo emergenziale solo come telelavoro, senza operare cambiamenti significativi nell’organizzazione e nelle politiche di definizione degli obiettivi, controllo e misura dei risultati.
Nelle imprese in cui questi nuovi modelli di organizzazione del lavoro sono stati messi in atto, lo Smart Working, pur con alcune criticità che poi affronteremo, è stato un fattore importante per la crescita della produttività e soprattutto per un incremento della soddisfazione e della “felicità” dei lavoratori, anche per la possibilità di un miglior bilanciamento tra il lavoro e le altre necessità della vita privata. Tanto che, in particolare per i “knowledge workers”, la possibilità di lavorare da remoto è divenuto uno dei fattori fondamentali nella scelta di un’opportunità professionale, anche più importante della retribuzione e di altri fattori.
In un recente rapporto Hybrid Way of Working 2021 curato da Jabra, che ha intervistato oltre 5.000 knowledge workers in tutto il mondo, oltre il 75% degli intervistati ritiene essenziale poter lavorare da qualsiasi luogo e oltre il 59% ritiene la possibilità di lavoro flessibile più importante del livello retributivo.
Inoltre, lo Smart Working può facilitare l’inclusione nel mondo di lavoro di soggetti fragili con difficoltà di movimento e delle donne che, spesso, devono conciliare l’attività lavorativa con la cura della casa e della famiglia. Infine, come ben evidenziato dal rapporto dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, lo Smart Working ha un impatto positivo sull’ambiente: a livello del sistema Paese, la possibilità di lavorare a casa per almeno 2,5 giorni alla settimana si tradurrebbe in un risparmio, in termini di emissioni di CO2, pari a 1,8 milioni di tonnellate all’anno (calcolate sui circa 4,3 milioni di lavoratori, che si recano al lavoro con i mezzi a motore) equivalenti all’anidride carbonica assorbita da 51 milioni di alberi!
Se questi sono i fattori positivi del lavoro da remoto vediamo anche, brevemente, gli aspetti critici che devono essere affrontati e risolti, se vogliamo implementare il “vero” Smart Working. La presenza fisica negli uffici, insieme ad altri colleghi, costituisce un fattore fondamentale, perché l’esperienza lavorativa sia soddisfacente, produttiva e innovativa. Il confronto tra le persone, non solo nei momenti ufficiali, ma anche in quelli informali (pausa caffè, pranzo, incontri casuali…) è fonte di conoscenza, generatore di idee innovative, spesso ispirazione per risolvere problemi complessi e, soprattutto per i giovani e le persone al primo impiego, fondamentale per crescere professionalmente. Per risolvere questo problema, non basta prevedere la presenza in ufficio qualche giorno alla settimana, ma occorre mettere in atto un insieme di pratiche organizzative per favorire il confronto, la collaborazione, lo scambio di idee, il brainstorming, ecc., ripensando anche gli spazi fisici degli uffici attuali che, molto spesso, non favoriscono affatto queste modalità di collaborazione.
L’altra criticità che va affrontata è il rischio che il lavoro da remoto sia causa di incremento dello stress per gli orari di lavoro eccessivi e per la necessità di essere continuamente connessi. Anche qui il tema va affrontato a livello organizzativo, definendo un “diritto” alla disconnessione in certi orari e nei giorni festivi (a meno di necessità di reperibilità formalizzata) e delle opportune limitazioni dell’orario complessivo di lavoro. Da ultimo, le persone devono essere dotate di strumenti tecnologici e di comunicazione adeguati, il cui costo deve essere a carico dell’azienda.
Alcuni Paesi (ad esempio il Portogallo) stanno cercando di risolvere queste problematiche per legge, definendo delle norme che stabiliscono nuovi diritti, tra cui anche il “diritto” a lavorare da remoto per x giorni alla settimana, se si hanno figli minori o, viceversa, il diritto alla disconnessione durante il weekend.
Ritengo che la strada da percorrere, se si vogliono veramente cogliere i benefici del “vero” Smart Working per i lavoratori, le imprese e la società, non sia quella di operare ex lege, ma di definire dei nuovi accordi tra le parti sociali (Associazioni di imprese e Sindacati) che superino l’attuale concezione del lavoro di tipo “tayloristico” (sostanzialmente ancora basata sulla presenza fisica, sull’orario rigido e sulla distinzione tra orario normale e straordinario), per evolvere verso una nuova organizzazione del lavoro, che offra ai lavoratori la necessaria flessibilità, autonomia e responsabilizzazione sui risultati, fattori fondamentali per un miglioramento della produttività, dell’innovazione e della sostenibilità delle nostre imprese e di tutta la società.
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