Non ha sorpreso che critiche nette alla prima stesura del Recovery Plan italiano siano giunte dal Parlamento, in via di ripresa di ruolo istituzionale dopo il lockdown. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha rilevato un’eccessiva “frammentazione” delle linee d’intervento delineate, consigliando di “concentrare le risorse su un numero minore di priorità, per avere un impatto maggiormente visibile”. Ma anche la Banca d’Italia, nel corso di un’audizione, ha chiesto “discontinuità”, auspicando una sostanziale riscrittura del Piano nazionale di resilienza e rilancio che il Governo deve presentare alla Commissione Ue entro aprile. Il Servizio Studi di via Nazionale ha sollecitato “un cronoprogramma, la specificazione degli obiettivi intermedi e finali, la stima totale dei costi e la quota da finanziare con prestiti”.
Obiezioni di metodo, quindi, ma anche di merito. Tanto che fra i rumor che il Premier incaricato Mario Draghi ha lasciato correre a margine delle sue consultazioni con le forze politiche il più importante ha riguardato la sua determinazione a riorientare il Pnrr “dalla spesa all’investimento”. Si tratta in realtà di un secondo trade-off dopo quello fra “debito buono e cattivo” enunciato già lo scorso agosto al Meeting di Rimini.
Quel primo paletto – tuttora valido – ha voluto richiamare fin da allora gli italiani a non dimenticare mai che il Recovery Fund farà sì affluire all’Italia 209 miliardi, ma essenzialmente sotto forma di prestiti da rimborsare. Quindi: la sostenibilità del debito – solo temporaneamente sospesa come parametro di Maastricht – sarà una delle priorità per il Governo Draghi. Il Pil dovrà risalire con decisione e il debito dovrà scendere in modo strutturale nell’arco di sette anni disegnato dall’Ue. E se una riforma fiscale strutturale è un dossier già di fatto posato sulla scrivania di Draghi, novità non secondarie sono attese anche da un altro versante finanziario finora pressoché ignorato: la montagna di risparmi congelata dagli italiani in oltre 1.700 miliardi di liquidità bancaria e postale.
Da un lato, l’Italia non sarà solo “prenditrice” del Recovery Fund, ma dovrà anche contribuire a finanziarlo. Dall’altro, una figura come Draghi si propone fin d’ora come la più autorevole a livello europeo per far progredire ulteriormente l’ipotesi eurobond. In concreto: i risparmiatori italiani (o anche francesi) ancora timorosi di investire nel debito pubblico del loro Paese a rating medio o basso, avranno prevedibilmente meno cautele se le risorse “prestate” per i piani nazionali NextGeneration/Recovery godessero di una piena garanzia Ue. Non sarebbe un gioco di prestigio, anzi: sarebbe la finanza di nuovo al servizio dell’economia reale e di una stabilità finanziaria che l’Italia ha i numeri per conseguire. Condizione essenziale – oltre alla desistenza della Germania – è naturalmente che il debito (italiano) sia “buono”, cioè che vada a finanziare “investimenti” (e non “sussidi”).
Quali “investimenti d’impatto”? Nell’elaborare un Recovery Italia 2.0, Draghi è chiamato a sciogliere numerose dicotomie lasciate in parte irrisolte dalla versione del Conte-2. Alcune appaiono evidenti e interconnesse: “infrastrutture fisiche vs digitalizzazione”; “Stato vs imprese”. “Nord e/o Sud”. Meglio puntare prima e di più sul Ponte sullo Stretto oppure sulla Grande Rete che Tim ha progettato per cancellare il digital divide in Italia e verso l’Europa? Il “Pnrr 1.0” poggiava fra l’altro su una premessa neo-statalistica: la ricapitalizzazione della imprese prostrate dalla recessione Covid attraverso l’ingresso diretto della Cassa depositi e prestiti. È una prospettiva che Draghi è parso da subito non condividere appieno, suggerendo di lasciare spazio adeguato al sistema bancario nel canalizzare la finanza-recovery verso il mondo produttivo. Ancora: è sufficiente uno stanziamento del 9% del Recovery per la ricostruzione del sistema sanitario post-Covid? E quale spazio devono avere il rilancio della ricerca medica/farmaceutica e la sanità sussidiaria ormai ben collaudata in molte regioni, anche in proiezione universitaria?
L’ipotesi stessa di prolungare l’anno scolastico – in apparenza suggerita a Draghi dall’emergenza – sembra destinata ad assumere dimensioni di più sostanziale politica economica. È fuori discussione che un Paese come l’Italia debba investire in misura strategica sul proprio capitale umano, sui suoi giovani: Draghi era stato categorico a Rimini già nel 2009. È evidente che l’ex Presidente della Bce è pronto a dirottare più risorse su scuola e università in chiave Recovery.ì, ma l’intera education community nazionale (insegnanti e studenti, famiglie e imprese “utenti” del sistema formativo) deve impegnarsi a fondo per aumentare la “produttività” di quello che è a tutti gli effetti il più popolato “settore” dell’Azienda-Paese. Anzi: la crisi di produttività endemica nell’Azienda Italia da almeno un ventennio va contrastata di petto alla radice. dove i “nuovi italiani” (tutti: i giovani nati nel Paese e quelli regolarmente accolti) imparano lo standard fondamentale della democrazia italiana “fondata sul lavoro”. Lo possono imparano meglio in una rinnovata scuola di base e in un sistema di advanced education più aperto a nuovi saperi e a più aggiornate strutture didattiche. Un sistema formativo capace di offrire “capitale umano finito” al mercato del lavoro: altro terreno cruciale sul quale il Recovery 2.0 non potrà non misurarsi. La strategia delle politiche attive – di un nuovo collocamento flessibile co-gestito da Stato, Regioni e operatori privati specializzati – è ferma da quasi tre anni. Ma fortunatamente non dev’essere costruita da zero.
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