Si possono usare in tanti modi e con tanti significati i termini di prevenzione e di medicina di territorio. Ma se affrontiamo tecnicamente il tema della attività di prevenzione della salute svolte dal Servizio Sanitario Nazionale e dei Dipartimenti di prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali (o Agenzie di Tutela della Salute, ATS) che erogano la maggior parte di tali prestazioni dobbiamo porre premesse imprescindibili. La prevenzione collettiva e la sanità pubblica – attività comprese nei Livelli Essenziali di Assistenza o LEA – comprendono tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli.
Si tratta di attività a cui il legislatore ha dedicato uno dei tre macrogruppi di LEA (gli altri sono l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera) e, almeno inizialmente, anche uno stanziamento minimo del Fondo sanitario, nella misura del 5% che, storicamente, non è quasi mai stato raggiunto. Queste attività non includono quindi la medicina e la pediatria di famiglia, la medicina specialistica, l’assistenza domiciliare, ecc., che rientrano invece sotto la dizione – oggi molto in uso – di medicina del territorio, che è quindi coinvolta in attività sanitarie prevalentemente di diagnosi, cura e riabilitazione su malati o convalescenti. La prevenzione collettiva e la sanità pubblica agiscono viceversa sulle persone sane con una serie di attività volte a evitare, nel limite del possibile, che le malattie si sviluppino minando lo stato di salute ottimale.
Prima del Covid-19 la prevenzione ha sempre fatto poco notizia, se si eccettua il dibattito di qualche anno fa sul calo delle vaccinazioni infantili (la cosiddetta vaccine hesitancy) e sui rimedi messi in campo dalle istituzioni. Ma la pandemia del 2020 ha sottolineato come una parte delle attività di contenimento e mitigazione passino proprio attraverso le azioni sopra elencate: sorveglianza epidemiologica e virologica, notifica dei casi, presa in carico dei casi e dei sospetti e ricerca dei contatti, con organizzazione e gestione dei relativi test diagnostici (le cosiddette attività di contact tracing), produzione di rapporti epidemiologici, pianificazione e organizzazione delle campagne vaccinali, nonché una corretta comunicazione ai cittadini. E proprio nella Regione più colpita dalla pandemia (la Lombardia) che si è aperto un dibattito sull’adeguatezza del modello organizzativo costruito dalla legge regionale 23/2015 rispetto a queste attività.
In Lombardia le attività di prevenzione e sanità pubblica sono affidate al Dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria che, nella attuale organizzazione del Servizio Sanitario Regionale, afferisce (come i Dipartimenti Veterinario, delle Cure Primarie e Socio-sanitario) alle nove Agenzie di Tutela della Salute. Una particolarità del modello lombardo della prevenzione (oltre alla denominazione del Dipartimento, che si chiama “di prevenzione” in 18 regioni su 20) è che il governo delle attività di prevenzione sull’individuo (quindi soprattutto screening e vaccinazioni) viene svolto tramite l’integrazione con le Aziende Socio Assistenziali Territoriali o ASST di riferimento territoriale. Ed è proprio questa divisione (mai attuata in una logica di piena integrazione) a essere stata additata da molti esperti come una criticità che non ha permesso di garantire un’attuazione efficiente delle attività di prevenzione in coordinamento con la medicina di famiglia, i distretti e gli enti locali. A tale divisione (che nell’emergenza Covid-19 ha mostrato tutti i suoi limiti) è anche corrisposta una dotazione organica non adeguata, carenza di alcune competenze delle figure professionali che operano in queste strutture (medici igienisti, medici del lavoro, tecnici della prevenzione, infermieri, assistenti sanitari, ecc.).
Tanti colleghi hanno parlato della Legge regionale 23/2015 su questa autorevole testata, evidenziandone alcuni difetti e suggerendo strategie migliorative in chiave di innovazione ed efficienza. Ma poiché pochi si sono addentrati nella specificità delle attività di prevenzione, a conclusione di questa disamina possiamo ipotizzare alcuni indirizzi futuri che sono, a nostro avviso, imprescindibili:
– la soppressione delle ATS e il contestuale trasferimento delle attività di prevenzione alle ASST (evocate persino nella relazione dell’AGENAS di fine dicembre) rappresenterebbero il colpo finale alla residuale capacità di intervento dei Dipartimenti di igiene e prevenzione sanitaria, la cui organizzazione sarebbe riversata in un’entità (l’ASST appunto) che ha prevalentemente mantenuto una missione ed una leadership ospedaliera, con la conseguente frammentazione e polverizzazione delle attività di prevenzione e sanità pubblica; e su questo punto il parere di tutte le società scientifiche e professionali (SItI, Accademia Lombarda di Sanità Pubblica, SNOP, SIMVEP, UNIPISI, ASNAS) è stato unanime;
– il Dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria dovrebbe rimanere afferente, come è ora, all’ATS per la sua valenza e comunque deve avere un bacino territoriale almeno corrispondente a quello provinciale. Questo permetterebbe di svolgere – ovviamente con una congrua dotazione organica – quel ruolo di riferimento rispetto agli Enti Locali, alle Prefetture, agli Uffici Scolastici e al terzo settore, con i quali il Dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria stabilisce rapporti locali stabili e articolati al fine di garantire la sicurezza igienico-sanitaria della popolazione, l’igiene degli ambienti di vita e di lavoro e l’erogazione di tutte prestazioni incluse nei LEA di competenza, eventualmente delegando le prestazioni ad altre figure, come i medici di famiglia, pur mantenendone la “regia”;
– dovrebbe essere istituita una “forte” ed autorevole struttura centrale regionale di riferimento (una sorta di “CDC” regionale) con compiti di programmazione e coordinamento delle attività di prevenzione, raccolta ed elaborazione dei dati (osservatorio epidemiologico), preparazione alle emergenze sanitarie (preparedness);
– accanto al riordino ed efficientamento del quadro organizzativo deve parallelamente essere implementato l’ambito formativo per immettere, anche nelle attività di prevenzione, professionisti giovani, preparati, motivati e con doti di leadership; e ciò deve iniziare dalle Scuole di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, che quest’anno segnano un significativo +138% di posti disponibili al primo anno, ma continuare con le lauree di Tecnico della Prevenzione e di Assistente sanitario, figure altrettanto indispensabili per completare la workforce della prevenzione.
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