Dalla metà degli anni novanta ad oggi la scuola italiana ha progressivamente cessato di essere il terreno di scontro fra ideologie che, nella nobiltà della pugna, forgiavano le future classi dirigenti, per diventare un più modesto anfiteatro, dove gli studenti e le studentesse hanno perso terreno a favore degli educatori o dei professionisti.

Il dualismo fra educatori e professionisti è una delle cifre interpretative dell’istruzione nel nostro paese: i primi, con la loro visione del mondo e dell’uomo, hanno accusato i professionisti di trasformare la scuola in un’azienda, stigmatizzando ogni proposta e ogni novità con la sufficienza di chi pensa di non aver nulla da imparare da tecnocrati che ripetono cose che, nel bene o nel male, nella scuola si sono sempre fatte; i secondi, con la loro bramosia di pianificare e regolamentare i processi, hanno accusato gli educatori di essere portatori di una visione tradizionale, “frontale”, dell’istruzione, obsoleto orpello in un’industria culturale che deve puntare a forgiare il capitale umano di domani, in un’affannosa ricerca di trasmettere un sapere che non necessariamente deve avere sapore, ma che inesorabilmente necessita di un riscontro reale, concreto, nel mercato del lavoro.

Gli educatori hanno dimenticato di essere all’interno di una comunità complessa e in trasformazione, i professionisti hanno smesso di avere stima del desiderio, di quella forza misteriosa che in una classe riesce a riaccendere il cuore dell’ultimo svogliato studente che imperterrito abita il fondo dell’aula.

Comunità e desiderio, tuttavia, non sono fra loro intercambiabili e dipendono l’una dall’altro: senza desiderio la comunità è un’organizzazione ideologica, senza comunità il desiderio è solo l’anticamera di una coscienza infelice.

Esattamente un anno fa, di questi tempi, la pandemia ha fatto deflagrare tutto questo: l’architettura della scuola italiana si è dimostrata antiquata, vecchia, eppure resistentissima ad una prova in cui era necessario coraggio, solidarietà, resilienza. Eppure, il dualismo di questi ultimi decenni, tra don Milani e l’Invalsi, sta saltando sotto i colpi della didattica digitale integrata, dello scaglionamento degli ingressi, della multifattorialità della valutazione degli apprendimenti.

Oggi un nuovo governo si fa largo tra le macerie di un anno difficile, in cui nemmeno gli eterni sindacati sembrano essere più abili a manovrare l’istituzione e i suoi mille rivoli.

Da dove, dunque, ripartire concretamente in tutto questo? Senza aver la pretesa di risolvere alcunché, è lecito segnalare al ministro che verrà tre tabù che alimentano divisioni e conflittualità tra i tifosi del desiderio e i volenterosi della comunità: il contratto di servizio, la validità dell’anno scolastico e gli organi collegiali. A questi tabù si susseguono tre incompiute del sistema scolastico italiano: la valutazione, la concezione degli spazi e l’autonomia.

In breve: lo Stato deve avere il coraggio di dare agli insegnanti non un numero di ore da lavorare, ma obiettivi precisi e garanzie economiche, sociali e deontologiche forti. Inoltre un anno scolastico – altro punto fondamentale – non può avere alla sua radice un numero di ore che lo rendano valido, ma una serie di traguardi di conoscenze, di competenze e di maturazione della personalità che la scuola deve essere libera di declinare come meglio crede, disponendo dei tempi e dei modi di impiego del personale ad essa assegnato secondo necessità.

Ed è qui, nella rappresentanza della comunità scolastica all’interno degli organi collegiali, che si decide molto del futuro della scuola. Hanno senso, nella scuola secondaria di secondo grado, i rappresentanti dei genitori? Ha senso il consiglio di classe pletorico che conosciamo oggi, spesso incapace di progettare e di monitorare davvero la vita della classe? Ha senso il collegio dei docenti dove oltre la metà dei suoi componenti non ha mai messo piede in un’aula da insegnante di ruolo? Non avrebbe più senso un organo unico, rappresentativo di tutta la comunità di istituto, affiancato da équipe educative di classe?

E, per venire alle tre incompiute, chiediamoci: siamo davvero certi che le cifre costituiscano un’utile forma di valutazione che spinga lo studente a migliorarsi? Non sarebbe meglio, si conceda la provocazione, eliminare la valutazione delle singole discipline in favore di prove d’esame triennali nel primo ciclo e biennali nel secondo? La scuola, poi, non dovrebbe avere spazi adeguati in modo che ogni docente possa usufruire di un vero ufficio, ogni materia delle proprie aule e gli studenti di spazi in cui vivere? Non dovrebbero i collaboratori scolastici diventare parte attiva nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi? Non dovrebbero gli amministrativi superare una prova di contabilità, di logistica e di giurisprudenza scolastica prima di essere assunti in servizio? Non dovrebbero i docenti avere un’idoneità pedagogica, didattica, psicologica e relazionale all’insegnamento? Non dovrebbero, infine, i presidi poter mettere a bando pubblico i posti liberi di insegnamento e valutare i docenti con i criteri dell’idoneità e non con gli antichi armamentari dei titoli di studio e degli opinabilissimi anni di servizio?

La scuola che verrà può superare steccati e ideologie se chi la governa smette di considerarla una vetrina, una passerella per raccogliere voti, e torna a guardarla con rispetto, restituendole dignità, trasformandola nel cantiere dell’Italia di domani. Dove anche don Milani si può sentire realizzato a scrivere, con gli altri colleghi, qualche pagina del Ptof.

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