Carcere di Poggioreale, 7 novembre 1980. Cutolo rientrava da una delle tante udienze del processo alla Nuova Camorra Organizzata. Una guardia penitenziaria si affaccia con aria contrita nella stanza della direzione: “Dottò, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…”. Giuseppe Salvia, che del carcere di Poggioreale era il vicedirettore, alla cui porta quell’agente aveva bussato, non ci pensò due volte. Uscì dal suo ufficio e fece ciò che prevedeva il regolamento: la perquisizione dei detenuti che rientravano in carcere dopo aver partecipato ad un’udienza processuale.
Tra le facce incredule degli agenti di polizia del carcere, cominciò lui stesso la perquisizione a Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Il boss rimase spiazzato; fu così sin troppo evidente a tutti i presenti che l’iniziativa del vicedirettore rappresentava per il camorrista che da lì a poco diventerà uno dei veri gestori dei soldi della ricostruzione post-terremoto per via del ruolo assunto nella prima trattativa Stato-mafia per la liberazione dell’assessore democristiano Cirillo, una sorta di sfida. Quel gesto metteva in discussione la sua autorità di boss davanti a tutti. Il boss ebbe persino un moto di stizza e cercò di dare al servitore dello Stato uno schiaffo. Giuseppe Salvia conosceva i codici non scritti della malavita. Lui che il carcere aveva tentato di renderlo anche più umano, sapeva bene che quella perquisizione poteva costargli cara, ma sentiva forte il dovere di riaffermare il potere dello Stato.
Il 14 aprile 1981 il vicedirettore, 38 anni, fu ammazzato da un commando di sei uomini, su mandato del boss, mentre tornava a casa. Lo stavano aspettando sua moglie e i due figli, che all’epoca avevano cinque e tre anni. Al suo funerale arriveranno sessantotto corone di fiori. Le invieranno i detenuti comuni come segno di ringraziamento nei confronti di una persona che anche in una istituzione così violenta come il carcere non aveva perso la sua umanità, tenendo sempre alta, al contempo, la bandiera dello Stato che purtroppo a quel sacrificio non ha dato il riconoscimento meritato.
Al contrario Raffaele Cutolo ha sempre goduto di uno spropositato e ingiustificato riconoscimento. Un indiscusso uomo di carisma all’interno delle carceri e della sua associazione criminale, ma non solo. Echeggia, ancora ora a distanza di anni, il suo ruolo nella trattativa per la liberazione di Cirillo, come anche il suo famigerato cappotto di cammello sfoggiato ai maxi-processi come segno di eleganza, e poi ancora le canzoni e i libri che lo vedono protagonista, come gli spezzoni del film di Tornatore che su YouTube ragazzi e adulti si passano e condividono. Il tutto rafforzato dalla mitologia del boss che “si è pentito solo davanti a Dio”.
Non è questo il messaggio che deve riecheggiare neanche nelle sacche di maggiore emarginazione dei nostri territori. In questi tempi di memorie labili, dimenticanze colpevoli, e riscritture della storia, per quanto possa apparire scontato, è meglio che si ricordi come Raffaele Cutolo fu unicamente il capo di una potente organizzazione criminale. La storia di Cutolo va declinata allora esattamente al contrario, ovvero ribadendo la supremazia dello Stato sui criminali, scandendo a chiare lettere come fare il camorrista non si porta più. Forse banale, ma purtroppo non scontato.
Non ci siamo mai sottratti dal parlare di legalità, soprattutto al di fuori di quelli che sono i confini delle nostre professioni. Incontriamo persone di associazioni per discutere delle insidie delle mafie nella società e nell’economia. Abbiamo sempre provato a spiegare che il valore della testimonianza non è importante perché la rende il magistrato “famoso ché ha arrestato boss mafiosi che sembravano inafferrabili”, ma perché quel magistrato (o quel poliziotto, quel professore universitario, quell’imprenditore, chiunque) serve lo Stato, è al servizio dei cittadini ed è non solo colui che garantisce il rispetto delle leggi ma il primo ad esserne soggetto.
I mafiosi certificano purtroppo che il principio di rieducazione della pena non può funzionare sempre. E segnatamente che non può funzionare con chi non vuole essere rieducato. Un mafioso, ancorché un essere umano, soprattutto quando commette reati di sangue, merita allora una sola considerazione: dignitose condizioni di detenzione e un trattamento umano in una cella di un carcere. Null’altro. È l’unico rispetto che lo Stato, nella sua magnanima autorevolezza, deve concedere a questi soggetti. Da cristiani, ci auguriamo che Cutolo fosse riuscito ad ottenere almeno il perdono di tutti i familiari delle vittime cadute per le sue drammatiche decisioni criminali. A partire proprio dal barbaro assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, lui sì un simbolo, un esempio di servitore dello Stato.
Lo Stato con Cutolo ha mostrato, dopo pagine opache ed inquietanti anche di presunti accordi, di essere diventato autorevole, mettendolo in carcere al 41 bis e riducendone al lumicino la sua potenzialità criminale. Lui, Cutolo, il suo ergastolo su questa terra l’ha scontato. Ma ci sono decine, centinaia di persone, che hanno avuto loro congiunti uccisi per mano di assassini legati a quest’uomo, che ogni giorno che il buon Dio concede loro di vivere su questa terra, soffrono per aver visto persone che amavano trucidate in maniera crudele per i folli piani criminali di Cutolo come di altri volgari criminali che come lui vivono sepolti da ergastoli che sconteranno.
Onorare le vittime innocenti di questi criminali, significa ricordare a tutti noi che la legislazione antimafia di questo Paese è stata scritta col sangue di magistrati, donne e uomini in divisa, preti, operai, giornalisti, italiani e migranti stranieri. La strage dei cittadini africani per mano di Giuseppe Setola e i suoi sodali è una cosa che non scorderemo mai. Onorare le vittime delle mafie significa pretendere di mantenere in vita norme come il 41 bis e altre che consentono alla magistratura e alle forze di polizia giudiziaria di eradicare il fenomeno mafioso. Perché la mafia non si deve contrastare ma recidere come si fa con un cancro.
È solo questione di volontà politica. Come è questione di volontà politica la certezza e la dignità della pena, che deve tendere alla rieducazione del detenuto, ed assicurare condizioni dignitose di espiazione a tutti. Lo Stato è più forte della mafia. Se vuole. Utile allora ricordare come i mafiosi siano stati spesso arrestati e stanati dentro fogne, tuguri o buchi sotto terra. Tutta la loro potenza è una vita da schifo, sempre braccati. La loro ricchezza è una tana sotto terra dove nascondersi. La loro strada in questa vita, come diciamo spesso ai giovani delle scuole, conduce ad un certo punto ad un bivio: viale del riposo eterno (un cimitero, ucciso per strada) o una cella con la privazione dell’unica ricchezza che abbiamo, la libertà.
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