Era immaginabile che Mario Draghi assumesse su di sé l’impegno di impostare una riforma fiscale organica. L’irrompere del Covid ha reso inservibile il cantiere aperto all’inizio del 2020 dall’allora titolare del Mef, Roberto Gualtieri, il quale si stava concentrando su un aggiustamento dell’Irpef, essenzialmente in chiave redistributiva fra fasce di reddito.

Un anno dopo il contrasto alle crescenti diseguaglianze socioeconomiche non ha perso attualità, anzi: il nuovo Premier ha lasciato chiaramente intendere di considerarle tuttora un’emergenza specifica all’interno della macro-emergenza scatenata dalla pandemia. Ma lo stesso Draghi ha posto con tutta evidenza la ricostruzione del sistema tributario come momento politico prioritario. E non sorprende che ciò avvenga quando proprio l’esordio dell’ex presidente della Bce sulla scena istituzionale nazionale ed europea sembra accelerare la partenza del Recovery Plan, che consisterà in un complesso “dare e avere” finanziario, di diritti e impegni fra i 27 Paesi-membri e le loro istituzioni comunitarie.

L’obiettivo di Draghi è comunque trasparente: rivedere e ripensare in modo sistematico e complessivo tutte le componenti e i meccanismi del prelievo fiscale. È in questa cornice ampia che il Premier – accennando fra l’altro al “modello danese” – ha ventilato un richiamo al principio costituzionale della “progressività”: chi produce maggior reddito – e ha quindi più “capacità contributiva” – dev’essere oggetto di una pressione più alta. Ma questo non può ridursi in un semplice spostamento di aliquote Irpef a nel ridisegno degli scaglioni. Il punto non è prelevare meccanicamente più o meno imposte e tasse a questa o quella categoria di cittadini-contribuenti in un’Italia “data”, anzi: ridimensionata dalla recessione-Covid.

L’intento riformatore di Draghi – non a caso affidato inizialmente a una vasta consultazione fra le forze economiche e sociali – mira a ridefinire in modo efficace l'”equità” del sistema fiscale come motore della stagione Recovery: come infrastruttura funzionante e credibile nell’Azienda-Italia. E le sfide appaiono essenzialmente tre.

La prima attiene certamente la piaga dell’evasione/elusione. Per troppo tempo in Italia i contribuenti onesti – e non sono solo dipendenti e pensionati – sono stati vittime periodiche di una doppia iniquità: quella che ha dapprima fatto mancare gettito e si è poi mossa lunga la pista unica dei condoni. La questione – che Draghi sicuramente vuole affrontare – è tagliare quanto più alla radice l’evasione.

La seconda e la terza sfida sono i due lati di uno stesso sforzo di modernizzazione del sistema-Paese. Non deve sembrare paradossale affermare che il fisco dev’essere al servizio delle imprese e dei lavoratori autonomi. Lo deve diventare in termini di struttura del prelievo, ma soprattutto in chiave di onerosità burocratica. L’amministrazione finanziaria dev’essere alleata e non avversaria di chi produce Pil, export, occupazione e innovazione. Dev’essere al fianco di chi avvia – o riavvia – un’attività d’impresa sul mercato.

Sull’altro versante, non c’è dubbio che vadano ripensati anche i modi fiscali di “erogare solidarietà” a chi nel Paese la merita, come impone la Costituzione. Nessuno dubita che la giungla di “tax expenditures” agevolative vada sfoltita. Ma l’orizzonte dell’intervento prospettato da Draghi non sembra così limitato. Già una “politica fiscale della famiglia” – base di una strategia-Paese “per i nostri figli e nipoti” – non può essere solo una questione di detrazioni e sussidi: anche se una riflessione approfondita su cifre e parametri è ineludibile. La grande e drammatica lezione della pandemia è che i flussi di finanza pubblica sono sempre meno sufficienti ad affrontare le problematiche e i rischi di una società complessa. Far pagare le tasse e quindi spenderle/investirle in mondo “equo” – cioè legale, sostenibile, efficace – resta però condizione necessaria.

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