Rai1 è da settimane aggrappata al successo di due donne del Sud. Senza gli ascolti di Mina Settembre e de Le indagini di Lolita Lobosco l’ammiraglia dell’azienda di Stato si sarebbe già inabissata da mesi. Ultimo disastro, in ordine di tempo, la produzione Ballandi “A grande richiesta, Parlami d’amore” precipitata al 10,2% di share contro Canale 5 al 28,6%.
Proprio alla vigilia di un nuovo e difficile Festival di Sanremo, con la certezza di non poter ripetere gli eccezionali risultati (soprattutto pubblicitari) dello scorso anno, con l’arrivo delle partite di Champions (che oscurano letteralmente i programmi Rai) e i disastrosi dati di alcuni nuovi prodotti, le uniche consolazioni sono arrivate dalle due fiction andate in onda la domenica sera nei mesi di gennaio e febbraio.
Mina Settembre ha raggiunto il 26,4% (oltre 6,5 milioni di spettatori) e ha consacrato la bella e brava Serena Rossi come nuova star del variegato e spesso scarno mondo della televisione e del cinema italiano. Dopo gli anni della popolare sitcom Un posto al sole, la Rossi ha via via scalato i giudizi della critica e del pubblico. Paragonabile ad una Jennifer Aniston di casa nostra, ha il merito di aver coniato un nuovo modo di rappresentare la femminilità dei giorni nostri. Quasi sempre alla presa con lavori precari e difficili, con Mina addirittura sceglie di proposito di fare l’assistente sociale in un quartiere popolare della città. Il suo volto espressivo interpreta alla perfezione l’altalena tra momenti di vero sconforto e quelli di semplice e genuina felicità.
Gran successo (31,8% di share e 7,5 milioni di spettatori) anche per la prima puntata di Lolita Lobosco interpretata da Luisa Ranieri. Lolita è un vicecommissario di polizia che dopo un lungo periodo di lavoro al Nord torna alla questura di Bari, proprio in quel centro storico una volta così malfamato e dove è cresciuta in una famiglia di pescatori.
Sono numerosi gli intrecci tra le due storie. In alcuni casi le trame si sovrappongono, lasciando immaginare che chi aveva il compito di coordinare le due produzioni non si sia neppure letto i copioni. Nonostante il successo di pubblico, alla fine le due serie tv “made in Rai” hanno suscitato un dibattito e sollevato numerose critiche. Tra queste le più pungenti sono arrivate da Enzo D’Errico, direttore del Corriere del Mezzogiorno, che si è domandato “Ma è davvero questo il Sud che abitiamo ogni giorno?”. Siamo davvero questo luna-park di stereotipi? O piuttosto dobbiamo alzarci in piedi e gridare “Non siamo diversi da voi. È che ci disegnano così”.
La prima cosa che salta agli occhi sono i soldi che vengono spesi a piene mani dalle “film commission” regionali. Sollecita qualche interrogativo come il danaro pubblico – in questo caso di due regioni del Sud – sia impiegato per fare pubblicità a due città che hanno bisogno di tutto tranne che di depliant patinati. Continue e ripetute riprese dall’alto, la ricerca di effetti da festa di paese (con tanto di fuochi d’artificio), continui riferimenti a luoghi turistici e a menù da degustare, fanno delle due serie tv due prodotti di “cassetta”, palesemente orientati a sfondare tra il pubblico di queste due regioni popolose e tra la fascia di ascoltatori over 60.
La seconda cosa che accomuna “Mina” e “Lolita” – e purtroppo anche le critiche più aspre – è l’uso che viene fatto del dialetto, proponendo in fin dei conti un linguaggio deformato, inaccettabile dal punto di vista culturale. Non perché non si possa usare il dialetto, anche nella sua versione più integrale, per una produzione rivolta ad un pubblico più ampio. Avviene con successo con Gomorra e L’Amica Geniale, dove si giunge all’uso dei sottotitoli. Oppure come è avvenuto in passato per grandi attori come Eduardo o Totò, che usavano un napoletano “comprensibile” pur conservandone intatta la forza espressiva.
Quello delle serie Rai è purtroppo un uso caricaturale dei dialetti meridionali, si gioca quasi unicamente sulle inflessioni e sul suono, e su battute che fanno ridere poco o che scadono nel doppio senso. Inutile dire che le due attrici dimostrano invece di poter fare molto di più che adeguarsi ad un lavoro così scarso della sceneggiatura.
Altro aspetto comune alla vita delle due protagoniste – banale e per certi aspetti irritante – è l’ossessione per il padre scomparso. Lasciamo stare anche qui lo stereotipo della figlia innamorata del proprio genitore, ma quello che non si capisce è perché voler insistere nella ricerca ad ogni costo di un ruolo “paterno” nella vita e nelle scelte delle protagoniste.
Vi è infine un tema assai delicato e riguarda l’approccio alla legalità, volutamente visto con gli occhi di chi vive al Sud e da un punto di vista “femminile”. In entrambi i casi il lavoro delle due donne – come è facile immaginare – le porta ad occuparsi di casi che hanno a che fare con il funzionamento (o il malfunzionamento) della giustizia meridionale. La stessa presenza di una figura di magistrato – l’ex marito di Mina e la miglior amica di infanzia di Lolita – sembra confermare che sono essi stessi i primi ad essere assuefatti a questo andazzo, e che solo di fronte a casi estremi sono disposti ad intervenire. Vi è una lettura del tema a dir poco superficiale e di maniera, dove prevale uno strano concetto di “flessibilità” che porta di volta in volta a chiudere un occhio o a stabilire una gerarchia “morale” tra un reato e l’altro.
Il successo di pubblico ha già spinto la Rai a programmare per entrambe le fiction la seconda stagione. Ci auguriamo che almeno si metta mano con più serietà alla scrittura delle sceneggiature (di cui non hanno alcuna colpa gli autori Maurizio De Giovanni e Gabriella Genisi, dai cui romanzi sono liberamente ispirate le due storie) e ad una cura maggiore dei dettagli. Oltre a una diversa programmazione. In una sola settimana la Rai è stata capace di propinarci nello stesso palinsesto tre prodotti praticamente identici (ai due di cui ci siamo occupati oggi aggiungerei anche la seconda stagione de Il commissario Ricciardi) collocati in prima serata, con le stesse compagnie di giro e gli stessi attori, con le stesse città a fare da sfondo e lo stesso abbondante uso di luoghi comuni. Si rischia sinceramente l’abbuffata e di fare del male. Lo dico con rammarico da uomo del Sud e difensore della nostra cultura.