Il Financial Times ha annunciato con una breaking news nell’apertura del suo sito l’incarico a Mario Draghi per la formazione di un governo di unità nazionale in Italia. Prima ancora di recarsi al Quirinale, prima ancora di stilare la lista dei suoi ministri e di mettersi al lavoro su tutte le emergenze del suo Paese, il past president della Bce sta già “creando valore” direbbe il freddo gergo dei mercati. Ma è certamente più corretto affermare che fin dal primo istante il banchiere centrale italiano sta mettendo tutto il suo valore personale al servizio di tutti i suoi concittadini. Italiani, ma anche europei.
Lo stesso quotidiano della City ha celato a mala pena il rimpianto che la Gran Bretagna falcidiata dal Covid mentre affronta il trauma-Brexit non possa più far parte di un’Europa di cui – fin da ieri sera – Draghi è uno dei leader, forse addirittura il nuovo leader, quando Angela Merkel si accinge a uscire di scena in Germania ed Emmanuel Macron vede avvicinarsi la campagna per la rielezione in Francia. Vi sono pochi dubbi che – mentre il prestigio della Commissione Ue si è vistosamente appannato dalla prova-vaccini – Draghi sarà prezioso per iniettare fiducia e autorevolezza: per ricostituire le riserve di quei “beni collettivi” che le istituzioni hanno paurosamente consumato, a Bruxelles come a Roma.
Il “valore-Draghi”, del resto, è quello condensato nel suo celebre whatever it takes dell’estate 2012. Quattro anni prima nessuno aveva avuto il coraggio di pronunciare quelle parole fra Washington e Wall Street: e le conseguenze – non solo economiche, non solo in America – si sono poi rivelate inimmaginabili e sono ormai incalcolabili. Draghi – in un momento cruciale – non esitò invece ad affermare che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l’euro. Nel suo ruolo istituzionale poteva farlo solo lui, ma lo fece e se ne assunse la responsabilità piena. Tutti gli credettero e l’euro c’è ancora, in salute niente affatto cattiva. Non era scontato.
Non era scontato neppure che – nel marzo 2020 – Draghi rompesse il riserbo di fresco ex presidente Bce, sentendosi in dovere di suggerire ai disorientati capi di Stato e di governo Ue la terapia per il contraccolpo recessivo che avrebbe trasformato la pandemia in un’emergenza socio-economica. Scrisse – in un intervento breve ma chiaro e decisivo – che per evitare una “tragedia biblica” l’Europa non avrebbe dovuto temere di indebitarsi, per aiutare le famiglie e soprattutto per sorreggere e rilanciare le imprese. Tre mesi dopo il Recovery Plan concretizzò la sua raccomandazione, vincendo granitici “tabù” politico-economici radicati nella Ue.
Poco dopo la svolta nel Consiglio Ue, Draghi ha voluto parlare ancora all’Italia e all’Europa. Accogliendo l’invito a tornare al Meeting di Rimini, ha colto l’occasione per affinare i suoi consigli per la stabilizzazione e il contrasto alla crisi post-Covid. Ha ricordato che “c’è un debito buono e uno cattivo”: che nessuno in Europa – tanto meno l’Italia – potrà permettersi di mal utilizzare i fondi che verranno reperiti per il Next Generation Ue rafforzato in versione Recovery. Quel consiglio, certamente, non è stato finora ascoltato in Italia, mentre la stessa Ue sembra ancora dubitare sulle “vie buone” da seguire e su quelle “cattive” da evitare. Ma forse è per questo che Draghi ha accettato di rientrare in servizio. Civile, non politico.
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