Sarebbe un peccato gravissimo sprecare quanto accaduto – e sta ancora accadendo – non accogliendone una provocazione per il cambiamento”. Abbiamo sentito ripetere questo auspicio tante volte nei mesi di pandemia. Imparare da quanto è accaduto (e accade) è il desiderio che Camillo Rossi, direttore sanitario degli Spedali Civili di Brescia, ha affidato alla rivista Nuova Atlantide. La sua principale riflessione però, sorprendentemente, non riguarda come migliorare il sistema, quante risorse in più servono. Altri grandi esperti (tra cui Ricciardi, Pregliasco, Sparer, Barach) lo fanno, approfondendo i passi che dal Covid vanno fatti per costruire la medicina del futuro.
La sua riflessione non contiene nemmeno rivendicazioni di superiorità morale o invettive verso chi non ha fatto. Il suo contributo, vissuto sul campo, riguarda invece qualcosa che sembra più aleatorio, ma non lo è: “Di fronte a pazienti con le più diverse condizioni cliniche, affetti da un quadro sconosciuto, ma con presentazione clinica inizialmente non chiara e spesso sfumata, ma sempre più grave e urgente, tutto il personale ha lavorato insieme senza più guardare alle appartenenze, alle diverse unità operative dell’Azienda e/o Universitaria o al ‘grado gerarchico’ collaborando, imparando gli uni dagli altri, perdendo la nozione del tempo, staccandosi per lunghi periodi dalla propria famiglia per proteggerla, diventando famiglia acquisita per i pazienti ricoverati posti in isolamento strettissimo, adottando pratiche di pietas per i defunti. Nessuno di noi è stato obbligato, nessuno di noi ha ricevuto ordini di servizio (né verbali, né scritti)”.
Gli ingranaggi di un sistema che non funziona vanno riparati, ma non bisogna rinunciare a chiedersi come potrebbero farlo persone che mettono in gioco tutto se stesse. Non vale oggi anche per la nostra classe politica a fronte delle scelte che è chiamata a fare?
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