A cento giorni dal termine per la presentazione alla Commissione Ue, il Piano nazionale di resilienza e rilancio (Pnrr) rimane in gran parte un “libro bianco”. La sua messa a punto richiede ancora la definizione puntuale dei progetti Next Generation sui quali l’Italia intende investire – non genericamente “spendere” – gli oltre 200 miliardi di euro che il Recovery Plan ha destinato al sistema-Paese. È un passaggio di primo impegno, unitamente all’individuazione della migliore struttura di governance di uno strumento di riaccelerazione economico-sociale quello che è stato giustamente paragonato al Piano Marshall.

Non sorprende che proprio su questo terreno il confronto fra le forze politiche sia sfociato in una complicata fase di verifica, culminata infine nella decisione del Presidente della Repubblica di affidare a Mario Draghi la formazione di un governo di unità nazionale e salute pubblica. Né sembra fuori luogo prevedere ora che l’ex presidente della Bce si ponga alla guida di un vero e proprio “esecutivo Recovery”: da subito concentrato sulla rielaborazione profonda del Pnrr e sulla sua collocazione al centro dell’azione di governo in Italia.

È stato per molti versi inevitabile osservare la governance istituzionale del Paese – anzitutto l’esecutivo uscente – venir richiamata dal processo puro e semplice di allocazione delle risorse e di selezione diretta di singoli grandi progetti di re-infrastrutturazione. Tuttavia l’output delle istituzioni – ciò che la Costituzione chiama specificatamente “politica generale del Governo” – si traduce non solo e non tanto nella gestione amministrativa, quanto in un più alto impegno di orientamento e guida del Paese: si concretizza cioè nella produzione di “riforme”.

Il testo attuale del Pnrr non ignora l’esigenza di accompagnare la strategia Recovery con uno “spiegamento” di grandi riforme. Giustizia, fisco e welfare vi vengono individuate come “tridente” principale, senza  dimenticare altri ambiti (dal mercato del lavoro alla concorrenza). L’enfasi tuttavia appare un po’ depotenziata – “ritualizzata” – al confronto con il “piano Colao” preparato per la Presidenza del Consiglio già al termine del primo lockdown. In esso le tre grandi riforme vengono collocate in modo chiaro e perentorio a base strutturale della strategia Recovery. Quest’ultima non potrà mai far veramente leva sulla “resilienza” e generare “ripresa” in Italia senza l’attivazione di processi di riforma nel sistema tributario, della giustizia (civile anzitutto) e di un welfare in cui l’emergenza sanitaria ha aggiunte sfide alle crescenti criticità dei sistemi previdenziali. Mano a mano che la strategia Recovery si svilupperà, i suoi risultati andranno certamente misurati su specifiche scale di grandezza economico-finanziaria; ma il un vero “successo” potrà essere dichiarato solamente in un’Italia “riformata”: più competitiva perché più innovativa, efficiente, coesa.

Di riforme nel Pnrr, dunque, se ne parla poco in concreto. La riforma fiscale riveste un ruolo centrale poiché i tributi sono il fondamento della spesa pubblica. La politica fiscale è l’unica alternativa alla politica monetaria se si vogliono raggiungere gli obiettivi di stabilizzazione e di rilancio dell’economia e di riduzione degli squilibri sociali, settoriali e territoriali. Il sistema tributario disegna la società che si vuole e non può essere limitato ad un restyling del modo in cui si versano o si riscuotono le imposte.

La riforma della giustizia è un tema che fa paura. Sono diverse le ricerche che indicano come da essa dipendano dai due ai tre punti di Pil. Una giustizia civile efficiente sarebbe uno stimolo eccezionale per l’economia. Rafforzerebbe la fiducia tra le imprese e nell’Italia. Altrettanto centrali sono i temi dell’istruzione e della formazione. Molti lavoratori hanno una formazione obsoleta e coloro che vi si approcciano hanno di fronte un’offerta spesso variegata. La popolazione italiana è sempre più vecchia e la pandemia ci ha mostrato che mancano medici ed infermieri. Ciononostante non è prevista una rivisitazione del sistema di accesso a queste professioni basato sul numero chiuso e prove selettive da concorso a premi che fa il paio con la stagione dei click day fiscali.

L’occasione che abbiamo davanti è straordinaria. L’Europa per vincere la battaglia che abbiamo di fronte ha varato un programma che ha nel Piano Marshall l’unico paragone. L’Italia non deve perdere l’occasione di fare bene. Se il progetto europeo è ancora attuale dobbiamo essere consapevoli che il nostro comportamento inciderà sul fallimento o premierà il coraggio mostrato dall’Ue. L’Europa nacque per costruire una pace durevole, poi si è affermata l’idea di Mercato unico e moneta comune quali strumenti per creare prosperità e libertà. Il Next Generation è l’occasione per porre nuove basi al rilancio dell’idea europea.

Sabino Cassese ha posto il tema della gestione dei fondi e forse sono necessarie strutture decisionali ed esecutive create ad hoc da affidare a guide autorevoli. Il Piano Marshall è stato attuato da strutture create ad hoc. La costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, altro esempio, fu sollecitata dalla Banca Mondiale, che chiedeva una “controparte” unica con la quale colloquiare.

Altro tema presente nel programma europeo è quello degli squilibri territoriali. Il Piano Colao non affrontava il tema del Meridione. E in fondo non ha avuto torto il premier Conte – oggi dimissionario – quando nel suo ultimo discorso alla Camera ha replicato apertamente (“Non vi interessa?”) a chi lo ha interrotto quando ha iniziato a parlare di Sud.