Attenti alle nuove foibe

Il 10 febbraio si commemora il Giorno del Ricordo, dedicato agli italiani della Venezia Giulia uccisi da Tito. Ma la tentazione di "infoibare" c'è ancora

Tra il 1943 e il 1947, migliaia di italiani dalmati e giuliani furono massacrati e gettati nelle foibe e centinaia di migliaia (circa 300mila, forse qualcuno in meno, forse qualcuno in più) costretti ad emigrare in fretta e furia per sottrarsi al regime comunista di Josip Broz detto Tito che si era istaurato in quelle aree passate, con la fine della guerra, dall’Italia alla Jugoslavia.

Dopodomani è il Giorno del Ricordo di questi tragici eventi ed è auspicabile che esso non si risolva in scontate celebrazioni, ma aiuti a destare la memoria e a imparare la lezione.

La memoria. Senza una memoria condivisa non si dà esperienza di popolo. Perciò l’amore alla verità (storica) deve prevalere sugli interessi di parte. Per quasi sessant’anni anni gli eventi delle foibe, dell’esodo, del massacro di Porzus (17 partigiani azionisti, cattolici e laici della Brigata Osoppo trucidati dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi) hanno avuto un trattamento indegno. Dalle sinistre comuniste sono stati negati, o ridotti, o giustificati sotto la bandiera dell’internazionalismo antifascista e antinazista; dalle destre fasciste esagerati e branditi come manganelli sotto i labari del nazionalismo anticomunista. Nel mezzo, il ventre molle democristiano attutiva e silenziava come un materasso di gommapiuma: prima la pace sociale, poi, semmai la verità. E forse, allora, è stato meglio così, chissà.

Ora gli storici si sono ben approssimati alla verità storica. I fatti sono veri, le cifre sono circa quelle che ho detto all’inizio, i massacri sono fondamentalmente stati pianificati ed eseguiti da Tito, prima con le sue formazioni partigiane, poi con la polizia di regime. Il progetto di una Jugoslavia comunista comprendeva la riconquista – con le armi prima e con i trattati poi – dei territori assegnati all’Italia dopo la prima guerra mondiale. Territori in cui gli italiani rappresentavano la classe borghese e in cui fascisti e nazisti, negli ultimi anni della guerra, avevano compiuto i loro soprusi. Dal 2005 si celebra finalmente il Giorno del Ricordo.

La lezione. Nazionalismo (sovreccitato), ideologia (comunista, senza remissione): ecco i “colpevoli”. Quando essi si scatenano, se magari non arrivano alla pulizia etnica o al genocidio, poco ci manca. Ora sul “mai più odio nazionalistico e razzista” si sono concentrati tutti gli interventi dei presidenti della Repubblica, da Ciampi a Napolitano a Mattarella; di “persecuzione scatenata dalla violenza del comunismo titino” ha parlato esplicitamente in questi termini per primo, se non erro, Mattarella nel 2018.

Comunque sia, all’origine di simili tragedie c’è sempre un tipo di progetto che prevede l’annientamento dell’altro, sentito come avversario e identificato come il nemico da togliere di mezzo. Da questo punto di vista il mondo (di cui prevalentemente ormai ci disinteressiamo, chiusi nel nostro confinamento mentale) è pieno di vecchie e nuove foibe: guerre (non solo militari), miseria, persecuzioni, fake news e controllo sociale tramite uso della polizia o dei big-data, sono tutti sistemi di affossamento (infoibamento) dell’altro.

Ma anche nel nostro modo occidentale, dal volto e dai modi non così truci, circola il virus della pulsione ad annichilire l’avversario, ed è assolutamente consigliabile una campagna vaccinale fin da piccoli (tramite l’educazione). Anche nei nostri sistemi politici non certo autoritari, possono sorgere autocrati o aspiranti autocrati (non necessariamente una persona, anche un movimento politico) che per esercitare il potere finirebbero anche per erodere dall’interno la democrazia stessa. Per individuarli e “pesarli”, i politologi americani Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, nel loro saggio Come muoiono le democrazie, propongono quattro cartine di tornasole. Una, quella che più interessa il nostro tema, è “la negazione della legittimità degli avversari”, trattati semplicemente “come una minaccia”. Ecco un rischio da scongiurare alla radice, se vogliamo ripartire e ripartire bene.

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