C’erano mille persone, perché non ce ne potevano stare più di mille l’altra sera al primo appuntamento di un ciclo dedicato ad Edward Hopper (1882-1967), sulla piattaforma del Museo Diocesano di Milano. Hopper è un artista popolare come pochi altri. Ma in questo anno di pandemia è diventato un pittore che tutti sentono, per così dire, sulla propria pelle. “Siamo tutti dentro un quadro di Hopper”, era stato infatti uno dei tweet più virali nei mesi dei vari lockdown: cioè chiusi, soli, esclusi dal mondo, costretti a stare in una bolla.
Ma è davvero questo il senso espresso dai quadri del grande artista americano? È per questo che esercita un tale magnetismo sul pubblico di oggi? Se fosse davvero così, sarebbe un pittore magari popolare ma certamente poco interessante: un pittore ripiegato nell’intimismo, chiuso dentro un suo mondo. Evidentemente le cose non stanno in questi termini. E anzi esercitarsi a guardare Hopper vincendo questa pigrizia; aprire gli occhi per liberarlo da sguardi troppo stereotipati è un esercizio utile e anche molto salutare.
Il senso del ciclo avviato l’altra sera è proprio questo: non a caso gli incontri sono stati affidati a relatori che non sono specialisti o storici dell’arte, ma che hanno una capacità di scavare e di “aprire” l’opera di Hopper, portando allo scoperto quell’energia segreta e in tanti casi anche imprevista che le rende tanto affascinanti.
Prendiamo il caso di un quadro celebre come “Summertime”: si vede una donna, vestita con l’abito più bello, sulla soglia di una casa tradizionale newyorkese, sotto una luce sfolgorante. È appoggiata alla colonna dell’ingresso e ha lo sguardo puntato verso un orizzonte che a noi precluso, ma che vive di riflesso nell’intensità di quella luce e di quella sua posa. Chi aspetta? E cosa calamita con tanta esclusività il suo sguardo?
“L’abito non è casalingo”, ha sottolineato Luigino Bruni, economista, primo ospite del ciclo. “È l’abito per uscire, non si sta a casa con un cappello elegante. Allora forse il quadro vuole proprio dirci questa tensione, questo movimento tra il desiderio di uscire e il restare, tra la forza centrifuga che spinge fuori casa e quella centripeta che la risucchia dentro”. Dunque è una tensione e non certo una stasi ciò che i quadri di Hopper comunicano. Bruni sorprendentemente ha rintracciato degli archetipi per questa donna sulla soglia e li ha trovati nella Bibbia: in Sara ad esempio, la moglie di Abramo, che sta sulla soglia della tenda, ma interloquisce con gli ospiti imprevisti che si sono palesati. Sta nella casa, ma vive di un’attesa. “È sentinella”, ha aggiunto, “che sta sulla soglia tra la città interna e il mondo esterno (Isaia, 21), e parla a chi sta dentro e a chi sta fuori, che chiedono: sentinella, quanto manca al giorno?”.
Che banalità interpretare la solitudine dei personaggi di Hopper come se fossero ostaggi di un “lockdown” esistenziale. La solitudine dei suoi personaggi è invece sempre attraversata dalla tensione di un’attesa. Non solo: è solitudine calamitata ogni volta da un fattore esterno, che non è dato vedere e conoscere, ma che con grande evidenza investe lo sguardo e lo cattura. Nei quadri di Hopper c’è sempre un “fuori” che cambia i connotati del “dentro”. Tanto che, come ascolteremo settimana prossima dal secondo ospite, Andrea Dall’Asta, certe opere sembrano prefigurarsi come lo spazio per un’“annunciazione”. Un buon modo di guardare un’opera d’arte e di renderla davvero utile alla nostra vita.
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