Covid: lavarsi le mani o lavarsene le mani

Si può già intravvedere un cambiamento strutturale che la lotta contro il Covid sta lasciando. È nell'idea di salute e di cura

Dopo oltre un anno il coronavirus è ancora un mistero. Tra gli aspetti inquietanti di questa pandemia c’è il suo progredire secondo logiche imprevedibili. Prima di tutto non ne conosciamo l’origine, poi non sappiamo ancora con precisione come si contragga, perché ci si ammali più o meno seriamente e quali fattori incidano sulla gravità e sul decorso della malattia.



I sistemi sanitari, sotto pressione, si stanno adeguando al meglio delle loro possibilità per far fronte a questa emergenza, ma si può già intravvedere un cambiamento strutturale che la lotta contro il virus sta lasciando. È nell’idea di salute e di cura. D’ora in poi non potranno più essere considerate come dinamiche che coinvolgono la sola sfera individuale, relative quindi alla qualità di medici e strutture, all’efficacia dei farmaci, alle risorse che si hanno a disposizione per curarsi, piuttosto che alla nostra costituzione fisica o alla qualità e igiene della vita.



Non è una novità, ma un ritorno al passato, quando le grandi epidemie come la peste o il colera erano mali ricorrenti e quando la mancanza di igiene personale e collettiva mieteva vittime. Si può dire che l’evoluzione della medicina stessa sia legata alla scoperta dell’impatto dell’igiene.

L’epidemia da coronavirus sta rimettendo al centro dell’attenzione i comportamenti di ognuno di noi nella vita quotidiana e le relazioni tra persone perché, ormai lo abbiamo fissato nella mente, ciò che facciamo non impatta solo sulla nostra salute, ma anche su quella degli altri. Per questo diventano fondamentali la comunicazione e la formazione di una coscienza civile. E questa dipende dalla responsabilità e dalla disponibilità a cambiare idee e comportamento.



Non è però facile essere così semplici e aperti al cambiamento. Ricordo l’assoluto rifiuto che da ragazzino opponevo a mio padre, medico pediatra, quando cercava di convincermi a lavarmi le mani. In una di quelle occasioni mi raccontò le vicende di Ignác Semmelweis, il medico ungherese che nel 1847 scoprì la causa dell’altissima mortalità delle puerpere nell’ospedale di Vienna in cui lavorava: la trasmissione di un batterio che i medici stessi diffondevano in ospedale, contagio che poteva essere evitato disinfettandosi le mani. Una scoperta rivoluzionaria per l’epoca che però gli attirò invidie e rancori da parte dei suoi colleghi. Per questo fu espulso dall’ordine dei medici e finì in manicomio.

Non basta l’autorevolezza di una scoperta scientifica o l’autorità di una legge, serve un atteggiamento e una comunicazione diversa che faccia leva sulla capacità critica delle persone, su una maggiore consapevolezza di sé e sulla responsabilità verso gli altri. E soprattutto, occorre “perdere tempo” a educare i giovani a questo.

È interessante il fatto che nella maggior parte dei Paesi occidentali non è mai stata introdotta l’obbligatorietà dei vaccini. Si è visto infatti che il tasso di rifiuto è superiore laddove i vaccini sono obbligatori. È proprio per non rinunciare a due aspetti fondamentali come libertà e responsabilità che l’aspetto educativo e del comportamento nella vita quotidiana diventa decisivo per contrastare malattie come il Covid e altre malattie infettive, che purtroppo, secondo gli esperti, continueranno a segnare il nostro futuro. Non bastano i vaccini a risolvere tutto.

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