Un’amica, da poco sposata, si è sentita dire dal suo capo: “Non capisco perché ti sei voluta legare così, ma non pensare di avere figli se vuoi continuare la tua carriera”. Un’altra ragazza, tornata in azienda dopo aver avuto un bambino, si è trovata in una situazione di mobbing “morbido”: veniva messa da parte nei progetti più importanti.
Il conflitto tra lavoro e famiglia, per le donne italiane, non si è mai risolto, ma l’anno della pandemia sembra aver riportato l’orologio indietro addirittura di qualche decennio. La perdita del lavoro nel 2020 riguarda le donne per il 98 per cento; una donna su due alla fine del primo lockdown aveva rinunciato ad almeno un progetto a causa del Covid e il 31 per cento annullava o posticipava la ricerca di un lavoro.
È un problema complesso che tocca temi quali il sistema di supporto alle famiglie in termini economici e di servizi di welfare, la tutela dei diritti dei lavoratori, l’organizzazione del lavoro, la conciliazione con i tempi di vita, e anche tratti culturali nella distribuzione dei compiti tra partner.
Quindi s’intrecciano questioni culturali, sociali ed economiche, che inoltre peggiorano il quadro generale di crisi demografica che dura già da diversi anni.
In un momento di così grave incertezza e pericolo di rimanere disoccupati, potrebbe sembrare già una fortuna avere una qualsiasi occupazione. Una volta superata la pandemia e lo stato di emergenza economica, bisognerà ritornare a guardare in faccia un vecchio problema lasciato in sospeso: il lavoro, oltre che a mangiare, serve a esprimere, valorizzare le persone, oppure, è solo una funzione dell’ingranaggio produttivo?
In altre parole, si riuscirà a correggere il rapporto tra lavoro e produzione della ricchezza? Si correggerà la tendenza a creare denaro attraverso denaro, e non con il lavoro?
E, non ultimo, come cambierà il ruolo dei lavoratori a seguito del progresso tecnologico e di un’economia globalizzata? Tutte domande che la pandemia ha solo rimandato.
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