Dopo il turbolento “Stop and Go” del vaccino AstraZeneca, le nuove indicazioni sui prodotti e la constatazione della lentezza nella copertura degli anziani e dei soggetti “fragili” (non solo in Lombardia ma in tutt’Italia, come denunciato il 21 marzo dal Corriere della Sera), è opportuno fare il punto della situazione, analizzando positività e criticità del primo trimestre vaccinale, per proseguire con rinnovato vigore.



Il dato epidemiologico da tenere presente è uno e fin troppo chiaro: oltre il 95% dei morti per Covid-19 appartiene alle categorie degli ultra-70enni o portatori di patologie croniche. Al momento la situazione delle coperture in queste fasce è imbarazzante, sia a livello nazionale che regionale. Le autorità competenti se ne sono accorte e stanno correndo ai ripari. Degli ultra-80enni ne sono stati vaccinati il 42% con una dose e il 15% con due. Ma è sulle categorie tra 70 e 79 anni e sui “fragili” che la situazione è ancora peggiore, con la campagna che, di fatto, non è ancora cominciata e che dovrà necessariamente coinvolgere attivamente i medici di famiglia che in passato hanno contribuito il successo delle campagne antinfluenzali. 



Poiché al momento abbiamo tre vaccini (che diventeranno a breve quattro) senza più limiti di età, occorre adattare le priorità e i tempi in modo da vaccinare queste categorie in tempi brevissimi. E se questo avviene con un rallentamento delle vaccinazioni di insegnanti, avvocati, manutentori ospedalieri, amministrativi e forze armate (tutti soggetti in età a bassissimo rischio di forme gravi) poco importa. Se raggiungeremo l’obiettivo di sanità pubblica di proteggere le categorie fragili, a breve i decessi scenderanno, come accaduto nel Regno Unito, e la prospettiva pandemica assumerà connotati diversi.



Il secondo tema è legato ai centri vaccinali che ci consentano di raggiungere numeri più significativi. Premesso che, finora, la capacità dei centri è stata superiore alla disponibilità di dosi e, quindi, hanno lavorato tutti a basso regime, occorre tenere presenti alcuni punti fermi, che nascono da importanti aspetti logistici, ma anche da considerazioni di sanità pubblica perché – ricordiamolo – quello vaccinale è un atto medico e fino a oggi tutte le campagne vaccinali in Italia sono state organizzate e condotte, quasi sempre con successo, dai centri vaccinali delle Asl/Ats e dai medici specialisti in igiene e medicina preventiva del Ssn, che dovrebbero essere forse considerati di più, in quanto formati anche per queste attività nelle Scuole di Specializzazione. Dall’esperienza di chi ha fatto vaccinazioni da sempre vengono dunque indicazioni generali che non devono essere lette tassativamente, ma adattabili alle singole realtà locali:

1) Meglio i centri vaccinali massivi. Il break-even per una buona efficienza, secondo i ragionevoli calcoli del Politecnico di Milano, si assesta a 600/800 vaccinazioni al giorno, con una linea vaccinale attiva (6-8 medici, 10 infermieri, 4 amministrativi e una decina tra ausiliari e volontari di supporto per ogni turno).

2) Meno medicalizzazione della campagna. Si continua a parlare di reclutamento di migliaia di medici (e specializzandi) vaccinatori, ma, in realtà, la somministrazione dei vaccini avviene, salvo rare situazioni, a opera degli infermieri (o degli assistenti sanitari, dove ci sono). Il ruolo del medico è di coordinamento del centro, valutazione anamnestica, osservazione post-iniezione ed eventuale intervento in caso di reazioni avverse. Questo aspetto è ancora poco noto.

3) Più tecnologie in campo. Stiamo facendo una guerra con munizioni d’altri tempi. Firma del consenso su tablet? Sconosciuto. Fascicolo sanitario elettronico per l’anamnesi? Non pervenuto. Scarico del foglio anamnestico al domicilio e consegna al check-in? Rarissimo. Se vogliamo accelerare dobbiamo far ricorso alle più sofisticate tecnologie informatiche disponibili, che la gente d’altronde già vede applicate, apprezzandole, in altri contesti quotidiani (banche, uffici postali, ecc.).

4) Sperimentare soluzioni innovative calcolando produttività, qualità della prestazione e soddisfazione degli utenti. Poiché l’esperienza è nuova non sottovaluterei nuovi modelli come il drive-through, il modello stanziale in cui si spostano gli operatori e il vaccinando (magari con problemi deambulatori) rimane fermo in poltrona; oppure la gestione di poche dosi giornaliere, come potrebbe avvenire in strutture sanitarie dove il personale, già presente, è poco occupato (col vantaggio di non avere aggravi di costi); incomprensibile è anche il motivo per il quale i rodati centri vaccinali delle Asl (dipartimenti di prevenzione) non vengono quasi mai presi in considerazione.

5) Accreditamento dei centri vaccinali. Dovrebbe essere un pre-requisito, definendo i criteri minimi logistici, strutturali, igienico-organizzativi (unità di personale) e amministrativi; non ci risulta venga fatto.

6) Affidamento del coordinamento a chi ha esperienza nel settore, possibilmente medico igienista con pregresse esperienze nella gestione di campagne vaccinali di popolazione, affiancato da personale infermieristico con tutte le conoscenze che permetterebbero loro di far fronte alle inevitabili circostanze imprevedibili come assembramenti, difetti di prenotazioni, richieste anomale, gestione delle fiale avanzate.

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