Non è tutta colpa del Covid

Due buone notizie, il ritorno parziale alla scuola in presenza e l'assegno unico, sono ossigeno per un paese in crisi profonda. Occorre ripensare il lavoro

Sono due buone notizie la decisione del governo Draghi di riaprire la scuola in presenza fino alla prima media anche in zona rossa e la conferma dell’erogazione dell’assegno “unico e universale” in attuazione del Family Act. Non saranno il toccasana, ma vanno nella direzione giusta: e cioè quella di porre attenzione, speriamo davvero prioritaria, ai fattori che sono tanti decisivi per le sorti della comunità nazionale quanto malconci a causa di prolungate e miopi trascuratezze. Detto proprio alla brutta, i due fattori “strategici” sono: far figli e tirarli su bene. Invece come siamo messi? Pesante calo demografico e pesante deficit dell’istruzione. Con un nota bene: non è tutta colpa del Covid. La pandemia ha peggiorato cose irrisolte da prima. Compreso l’impoverimento, che ha caratteri strutturali e non si risolve gran che puntando solo sull’elemosina.

Il calo demografico. Con centomila morti in più per causa del virus appare clamoroso il dato di una comunità che in un anno si ritrova con 384mila membri in meno. Al netto del Covid, la diminuzione sarebbe stata comunque superiore alle 200mila unità; e il processo dura da molti anni – decisamente senza cambi di tendenza dal 2008 – nonostante la componente immigrati, i quali notoriamente mettono al mondo più figli di noi nativi.

Anch’io, come credo molti, ho tante volte scioccamente pensato: e vabbè, saremo un po’ di meno, non succede mica niente. Enorme stupidaggine: già oggi ci troviamo meno mamme potenziali (donne in età feconda) e con meno persone nelle fasce centrali lavorative. Vuol dire che il sistema rischia grosso di andare verso il crollo. Il sociologo Alessandro Rosina dell’Università Cattolica ha scritto sabato sul Sole 24 Ore un pezzo chiarissimo su questo tema, ed ha giustamente auspicato una connessione tra l’assegno unico e la strategia a lungo termine da mettere in atto in relazione al New Generation Eu.

La scuola in presenza. Faccio l’elemosina anch’io. Do una mano alla Nina e alla Pinta, chiamiamole così. Hanno 35-40 anni, figli; il compagno non c’è più. Nuclei monoreddito a guida femminile, così sono catalogate. La Nina ha tre bambini che con cellulari vintage, pochi giga, e tutti e tre insieme in una sola stanzetta del bilocale in affitto agevolato fanno la Dad. Lei deve rinunciare a un po’ lavoretti di pulizie e simili, e per fortuna che la primogenita ha la testa sulle spalle. La Pinta di figlie ne ha due, ha perso i lavoretti che aveva (che si chiamano informali). Sprovveduta e scontrosa, non andrà da nessuna parte, così. Dipendente a vita dall’assistenza sociale?

Tutte e due hanno aiuti pubblici: buoni spesa, sostegno affitto, agevolazioni per la mensa e i trasporti scolastici, perché l’Italia è un paese molto ma molto solidale… a sua insaputa, magari. Fino a quando? Non ne usciranno mai, se i figli e loro stesse – a 35 anni, non a 70 – non sono aiutati nella conoscenza e nello sviluppo delle, come si usa dire, character skills, la qualità della personalità. Se una di 35 anni non sa mostrare, che so, in un McDonald, buona volontà, iniziativa, capacità di stare con le colleghe, garbo col cliente… Non resta che darle sussidi a vita. La società, cioè il contribuente (quello che non è così ricco da evadere né così povero da usufruire) non ce la farà. Ma soprattutto per lei la vita sarà solo una depressione.

Famiglia e formazione della persona sono le due realtà più colpite. L’anno scorso in Italia oltre 400mila persone hanno perso il lavoro e di queste oltre 300mila sono donne. Senza contare i lavori cosiddetti informali che sfuggono alle antenne dell’Istat. Al lavoro hanno dovuto rinunciare soprattutto le donne, essendo di solito il minore dei due redditi necessari per vivere. Il nucleo monoreddito, come quello della Nina e della Pinta, è destinato alla povertà. E nell’85 per cento dei casi è a guida femminile. Poi c’è la disoccupazione giovanile altissima, che non aiuta a metter su famiglia. A proposito, quest’anno: meno 68% di matrimoni religiosi, meno 35% di quelli civili.

Il rapporto lavoro-famiglia è molto malmesso. Abbiamo già avuto modo di scrivere che è il lavoro il centro della questione sociale.

L’impressione è che da questo si sfugga, o non si sappia che pesci pigliare. Al di là di quello che può o non può fare o la politica, è il caso di provare a ripartire da un confronto sulla concezione: cioè se il lavoro, con papa Wojtyla dell’insuperata Laborem Exercens, è la necessaria espressione della personalità che crea comunità di uomini, o se è (con Calvino e McKinsey) pura merce stritolabile (e scartabile) dal fine assoluto del profitto (altrui). Il primo è il lavoro libero. Il secondo quello dello schiavo, che torna di moda. La produttività dello schiavo è però infinitamente minore di quella dell’uomo libero. I padroni della finanza mondiale e dei maxi profitti o non lo sanno o se ne fottono, perché non hanno visione. E sbagliano.

Perché, per esempio, una ragazza incinta può lavorare e produrre, certo non da schiava, ma con libertà creativa, fiducia e misura ragionevole dei risultati, meglio di automi schiavizzati. Un grande imprenditore come Adriano Olivetti ha perseguito la fabbrica-comunità, con successo industriale (i successori hanno fatto soldi distruggendo). Ma anche un’azienda come Ferrero (in mano alla famiglia e non a fondi speculativi) ha dentro sensibilità per la dignità del lavoro, e non è che non funzioni. Quindi val la pena quanto meno metterci la testa.

D’altra parte pensare di contrastare il turbocapitalismo con la sola giustizia distributiva dal vago retrogusto pauperista e cattocomunista, è illusorio. Si finirebbe, nelle condizioni attuali, per spolpare anche chi non è (ancora) ridotto all’osso, senza dare una speranza alla… Pinta, alla Nina. E neanche alla Santa Maria.

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