La prima parola da dire è dialogo. Il dialogo con i musulmani è, dal punto di vista geo-politico e anche mediatico, il punto focale del viaggio di papa Francesco in Iraq. L’incontro, inedito, con il mondo sciita nella persona della sua massima autorità, l’ayatollah al-Sistani, è un evento epocale che fa pendant con la dichiarazione congiunta di Abu Dhabi del febbraio del 2019 sottoscritta dal pontefice e dall’imam al-Fayyed, forse il più rappresentativo dell’islam sunnita. 



La faccenda è decisiva per i destini del mondo. Cristianesimo e Islam abbracciano più di metà della popolazione mondiale (4 miliardi, di cui 2,2 cristiani e 1,8 musulmani; il resto è quasi tutto diviso tra induismo e religione cinese – 1 miliardo a testa – e buddismo, mezzo miliardo). Le religioni, forse solo esse, possono contribuire a strappare dal nichilismo che sempre più pervade un mondo dominato dal potere economico. Salvo trasformarsi a loro volta in strumento o pretesti per l’affermarsi di un potere. È dunque evidente che il confronto culturale tra cristianesimo e islam è cruciale per il cristianesimo e per l’occidente, quanto e più del confronto economico con la Cina. Inutile aggiungere che dalla polveriera mediorientale è esploso il terrorismo degli attentati in Europa e del Califfato dell’Isis. Insomma, ce n’è quanto basta per accettare un fioretto quaresimale consistente nella rinuncia a Domenica In su Rai Uno. Almeno, credo. La faccenda, infatti, ci riguarda tutti, altroché, mica solo i devoti.



La seconda parola da dire è incontro. Incontro personale. La persona, la propria e l’altrui persona come veri soggetti del dialogo. Emblematico quello con al-Sistani. Noi realmente non sappiamo cosa si sono detti i due grandi vecchi nei quarantacinque minuti di colloquio privato, ma le immagini ci hanno trasmesso il generarsi di un’empatia umana insieme alla consapevolezza della gravità della posta in gioco. Il colloquio con al-Sistani ci dà la cifra del dialogo interreligioso come lo intende papa Bergoglio: un avvicinamento fino all’amicizia tra comunità di uomini che “guardano le stelle in cielo”. Come per Abramo, il senso religioso spinge gli uomini e mettersi insieme per uno scopo buono riconosciuto e condiviso, ed è così, solo così, che nasce e vive un popolo. Le relazioni diplomatiche tra istituzioni… seguono, eventualmente. Prima c’è l’esperienza di quanto scritto sugli striscioni con i volti di Francesco e di al-Sistani: “Voi siete parte di noi e noi siamo parte di voi”.



La terza cosa da dire è la speranza posta non in un progetto da immaginare o una strategia da dispiegare, ma in un Avvenimento da riconoscere. Da un certo punto di vista è anzi questo il vero punto focale. Bisogna andare a leggere anche le omelie delle messe con i cristiani dei vari riti, le preghiere per i morti di Mosul, l’omaggio alla gente di Qaraqosh, insomma quelle cose che tanti giornalisti considerano senza rilievo storico e politico perché “religiose” e quindi scontate: una non-notizia. E invece. Invece papa Francesco è andato nell’Iraq (Paese spremuto e abbandonato dal mondo come uno scarto, ha detto), da pellegrino: penitente, di pace e di speranza. “Sappiamo – ha riflettuto nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad – quanto sia facile essere contagiati dal virus dello scoramento, eppure il Signore ci ha dato un vaccino efficace, che è la speranza: “Oggi posso vedere e toccare con mano che la Chiesa in Iraq è viva (si badi che tra guerre e terrorismo i cristiani si sono ridotti da un milione e mezzo a 250 mila, ndr), che Cristo vive e opera in questo suo popolo santo e fedele” (omelia della Messa allo stadio di Erbil). E, per essere ancora più concreti: “Non dimentichiamo mai che Cristo è annunciato soprattutto dalla testimonianza di vite trasformate dalla gioia del Vangelo”. 

Ecco le “stelle” cui guardare: i giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio; cristiani e musulmani che ricostruiscono insieme moschee e chiese; i pellegrini che ritornano; Najy che ha perso la vita nel tentativo di salvare la famiglia del suo vicino musulmano; la signora Doha che “mi ha commosso, perché ha detto che il perdono è necessario da parte di coloro che sono sopravvissuti agli attacchi terroristici”.  È così che si cambia il mondo: non con la violenza e la forza ma con le Beatitudini. Evitando di cadere nella trappola “di pensare che dobbiamo dimostrare agli altri che siamo forti”. Basta e avanza il riaccadere di quell’Avvenimento. Come è successo in questi tre giorni epocali come una Pasqua di croce e risurrezione.

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