Qaraqosh, la città più importante della pianura di Ninive, città cristiana, quattro anni fa era ancora l’epicentro dello jihadismo e a Mosul ondeggiavano le bandiere nere dell’Isis. In lontananza si sentiva il ruggito del fuoco dei mortai. Qaraqosh era allora una località fantasma, deserta, saccheggiata, distrutta dalle potenti bombe americane che penetravano negli edifici attraversando diversi piani, sfinita dai combattimenti corpo a corpo dell’esercito curdo. Entrando nella sua cattedrale si schiacciavano i bossoli di proiettile che coprivano il suolo: era stata utilizzata come poligono di tiro. Le colonne bruciacchiate e piene di scritte inneggianti alla vittoria del nuovo califfato, le immagini sante profanate con accanimento, mutilate. Perfino l’aria sembrava avere la freddezza e la negatività che fuoriesce dall’odio per la vita.



Perciò, vedere domenica scorsa il Papa che avanzava per queste vie che erano state piene di macerie, che sapevano del terribile odore della guerra, del fumo di distruzione e morte, è stato assistere in qualche modo a un miracolo. Le vie pulite, la cattedrale luminosa, le sue colonne che sostengono la vita e non la morte. Francesco ha visitato Mosul e Qaraqosh, l’epicentro fino a poco fa di un nichilismo violento che ha utilizzato la religione come pretesto. Non è un caso che le impronte, le scritte che il califfato ha lasciato sui muri fossero in arabo, ma anche nelle lingue occidentali, come l’inglese e il tedesco. Lì c’è stato un buco nero che ha attratto volontà disposte a negare l’essere e la vita. In questa cattedrale Francesco ha rilanciato al mondo la testimonianza dei martiri iracheni, di tutti i cristiani del Medio Oriente. Di chi fu fedele fino alla morte, dei 120.000 che in  una sola notte dell’agosto del 2014 furono costretti a lasciare le loro case nella Pianura di Ninive perché stava arrivando l’Isis, di chi ha perso tutto, degli adolescenti ai quali è stata puntata una pistola alla testa perché rinnegassero la loro fede, delle donne che non poterono fuggire e vennero trasformate in schiave sessuali, delle madri che vissero la maggiore angoscia, quella di pensare che le loro figlie sarebbero state violentate.



Il Papa ha rilanciato al mondo il tesoro della vittoria disarmata dei martiri e testimoni di fronte alle armate di un nulla che cercava la sua forza nell’inferno. Ha incoraggiato il ritorno dei cristiani nella Pianura di Ninive: solo la metà finora è tornata. L’esodo, in realtà, iniziò molto prima dell’Isis e si accelerò quando Bush decise di invadere il Paese per un falso ideale, per la difesa astratta di valori democratici concepiti senza storia e carne. Nel sottolineare con la sua visita il valore del martirio e della testimonianza dei cristiani iracheni, Francesco non ha agito come un capo politico o un capo religioso di una delle molte milizie della regione. Non ha puntato sulla creazione di un cantone cristiano nel nord del Paese affinché i battezzati possano vivere in pace, come sostenuto da alcuni. Ha ricordato le migliaia di persone distrutte dal terrorismo, musulmani, cristiani e yazidi, ha pronunciato la parola impossibile: perdono. E ha agito, con la sua condanna del terrorismo in nome della religione, come Papa di tutti gli uomini religiosi della regione. Anche dei musulmani. Francesco ha così seguito i consigli di San Bernardo a Eugenio III ed è stato il Papa di tutti, non solo dei cristiani.



Prima della sua venuta, nella cattedrale di Nostra Signora della Salvezza di Baghdad, una donna musulmana pregava la Vergine e ringraziava Dio perché stava inviando un uomo che rappresenta una speranza di pace. I cristiani hanno adornato le chiese per ricevere Francesco, i musulmani hanno agghindato le strade. Francesco ha visitato l’Iraq dopo essere stato in Egitto, Giordania, Marocco, Palestina Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Due anni dopo la firma negli Emirati del documento “Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” con l’imam Al Tayeb di Al Azhar, è avvenuto l’incontro a Najaf con Al Sistani. Il documento del 2019 ha rappresentato una pietra miliare nelle relazioni con il mondo sunnita, una pietra miliare nel rifiuto della violenza nel nome di Dio. Ora è arrivato il turno del mondo sciita, molto più articolato gerarchicamente. Al Sistani è quanto di più vicino ci sia a un’autorità ultima dello sciismo, professato da un venti per cento dei musulmani. Non c’è stato un documento, ma è stato molto significativo l’incontro, durato più di 45 minuti. Al Sistani è lontano dallo sciismo politico iraniano, che ha sostituito il ritorno dell’imam nascosto con uno Stato teocratico. Sistani ha condannato l’Isis e si è pronunciato in difesa dei cristiani perseguitati e può essere decisivo nel far sì che le milizie sciite permettano ai cristiani di vivere nella pianura di Ninive. Soprattutto, è un altro gran leader musulmano, un altro figlio di Abramo che insieme a Francesco prende le distanze dalla strumentalizzazione nichilista.

Il Papa a Ur, sotto lo stesso cielo dove Abramo udì la chiamata ad abbandonare la sua terra, ha indicato il compito di tutti i suoi figli (cristiani, musulmani ed ebrei): alzare lo sguardo all’Altissimo e testimoniare la Sua bontà, perché “il Cielo non si è stancato della Terra”. Il nulla non è la parola definitiva, ogni uomo è amato.

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