È da un bel po’ che quasi ogni sera c’è un rosario da dire, magari in webinar, in decine e centinaia, per un morto; o per un vivo, cui non vorremmo dire addio mai. In quei gesti, come pure nei brevi contatti con il malato, quando si può, si addensa il senso profondo di antiche o recenti amicizie, o di antiche e recenti stime. Povere voci all’unisono chiedono l’eternità, come nel bel canto di Adriana Mascagni. Siamo impotenti. Eppure riconosciamo un bene, quel bene, e lo desideriamo, ora, come in una promessa d’amore, per sempre. Così, giungiamo ad abbracciare il Destino della persona amata.
Il tempo della vita, si rivela come ininterrotto cammino, in compagnia, verso il compimento: le vacanze in campeggio insieme con bambini allora piccoli; le piccole e grandi opere e battaglie; i progetti in corso cui non rinunciamo, o a cui ci toccherà magari rinunciare; i difetti che sappiamo e neanche ci interessa più nascondere; e adesso questa tenerezza infinita per una vita cosi inerme perché appesa a un filo, cosi gloriosa e splendente perché afferma il suo Destino.
Si addolcisce, in questa compagnia al Destino, pur restando atroce, il dolore delle mogli, dei mariti, dei figli, degli amici. Si addolcisce il volto dolente di colui che patisce. Egli comprende che dall’eternità e stato voluto, e che lo è, ora, attraverso quelle povere voci e quei volti addolciti. Come il mio amico col cancro in pancia e il Covid nei polmoni – ma quanti come lui – che ci dice: “Mai come adesso ho sentito che la vostra compagnia è la Sua carezza, e questa non finirà mai”.
Intanto, in un’Europa già stracarica di morti, Spagna e Francia hanno trovato urgente e improcrastinabile occuparsi di una legge sull’eutanasia. Che clamoroso contrasto. Fra gli intellettuali che contano, solo Michel Houellebecq, ha espresso su Le Figaro del 6 aprile scorso la sua posizione nettamente contraria, sostenendo che la sofferenza non può giustificare l’eutanasia, la quale è “il disonore di una civiltà”. Ma perché? Perché – questo il suo argomento – la sofferenza può essere eliminata, in seguito alle scoperte della morfina e dell’ipnosi. Houellebecq, cioè, e con lui la cultura razionalistica, non ha gli strumenti per infrangere il dogma che la vita sofferente non è vita degna: “La sofferenza fisica – scrive nell’articolo citato – non è che un puro inferno, privo di interesse e di senso, da cui non si può trarre nessun insegnamento”.
Ma davvero la sofferenza non può avere alcun senso? Davvero la vita sofferente non è più vita? Io credo che questa sia la domanda fondamentale che l’individuo e il dibattito pubblico dovrebbero porsi chiaramente, e che invece è elusa o censurata (anche i media, fateci caso, parlano sempre di violenza, quasi mai di sofferenza).
Il cardinale Carlo Maria Martini, intervenendo a un Congresso sull’Aids organizzato nell’Università degli studi di Milano nel marzo del 1997 affermò: “La ricerca del perché del dolore e della malattia va compiuta con la ragione umana, poiché il soffrire può dirsi umano se è accompagnato dalla domanda di senso”. D’altra parte, sottolineò pure che la risposta non si trova in una qualche dottrina sul dolore (il buddismo della rassegnazione, lo stoicismo della totale apatia, e via discorrendo) e nemmeno “rivolgendo la domanda a sé stesso o ad altri uomini”. “La vera risposta la dà Dio – affermò quella volta senza mezzi termini – ed è Cristo nato, morto e risorto. Gesù non elabora una teoria sul dolore e sulla morte, non si preoccupa di spiegarci il motivo di queste realtà umane, ma vive in sé tutti i dolori del mondo e accetta di morire, tra le angosce, come tutti gli uomini. Non ci dice subito che il dolore è un valore; ci insegna piuttosto che è sbagliato respingere Dio e la sua fedeltà d’amore all’uomo in nome dell’esperienza del dolore, della malattia e della morte. In Cristo possiamo leggere il senso pieno della vita e della morte di ogni essere umano”. (cfr. Fondazione Carlo Maria Martini)
Se una risposta c’è e si propone imprevedibilmente ma realmente ora, conviene all’uomo e a alla “civiltà”, per prima cosa non censurare quella domanda sul senso della sofferenza, che è domanda sul senso della vita. Se poi uno si imbattesse nello spettacolo di trasfigurazione reale del dolore e della sofferenza, come è successo a me e a tanti altri, come dicevo all’inizio, potrebbe anche persuadersi a prendere in considerazione quella strana, inimmaginabile risposta e verificarla per sé. Sarebbe un ottimo contributo alla civiltà. Sì, perché in quella compagnia al destino capace di abbraccio si intravede l’inizio di un popolo nuovo.
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