A inizio marzo ho conosciuto Federica e Paolo, una giovane coppia in attesa della loro prima bambina, Maria, che si sapeva affetta da una malattia rara e per questo destinata a vivere pochi giorni.

Mi ha subito colpito la serietà e la serenità dei due ragazzi neanche trentenni, pur nell’immenso dolore che li attraversava: si preparavano ad accogliere una bambina viva, portatrice di vita, una vita “piena”, a cui non mancava nulla. Maria è nata pochi giorni dopo il nostro incontro, ha vissuto quasi un mese, prima di morire per una complicazione dovuta alla sua fragilità.

Ho rivisto i genitori il giorno dopo il funerale. Mi hanno raccontato di quel mese, della dedizione di medici e infermieri, del sostegno e dell’affetto profondo di amici e parenti che non li hanno mai lasciati soli.

Avevo davanti due persone che, mentre attraversavano un dolore acutissimo, non erano preda della disperazione. Nello stesso momento li vedevo feriti profondamente e accarezzati. Ho ripensato alla carezza del Nazareno di cui parlò Enzo Jannacci.

Federica e Paolo erano alle prese con un rapporto, appena cominciato, con la piccola figlia nata e morta dopo pochi giorni, una relazione che misteriosamente sentivano sarebbe durata tutta la loro vita.

Mi è tornato in mente il gesto drammatico ma pieno di dolcezza e dignità di Cecilia dei Monatti descritto da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: una mamma ammalata depone la figlioletta morta sul carro dei monatti impedendo che venga toccata da altri e la saluta rimandandola a un loro prossimo incontro.

Quante domande mi sono rimaste da quell’incontro. Prima di tutto cosa è l’utilità e il compimento della vita, se per alcuni dura un battito d’ali, per altri è lunghissima e per chiunque è compiuta in un modo incomprensibile, ben lontano dalla nostra idea, spesso funzionalista e moralista, di utilità e di merito.

Questa esperienza di morte e di vita che mi ha profondamente segnato riguarda quanto sta avvenendo oggi. Non mi riferisco ai grandi temi sanitari, sociali, economici, politici implicati nell’affronto della pandemia. Mi riferisco a temi ancora più grandi: Anas, Giuseppe, Luigi, Gianpietro, Fabio, Lucia, amici miei o amici e parenti di amici, che se ne sono andati, uno dopo l’altro, improvvisamente. Dove sono adesso quei volti così familiari e così amici? Dovrebbe bastarmi il sapere che li rivedrò nell’aldilà? Certo che no. Per quanto, il sentirli in qualche modo misteriosamente con me a leggere i miei pensieri, a condividere la mia vita, a dialogare con me, significa non tagliare via arbitrariamente un pezzo di vita importante.

Però non sarebbe ancora sufficiente se non mi chiedessi come certi incontri che mi hanno dato speranza, forza, fede mi hanno cambiato; se non mi ponessi domande su dove mi hanno diretto, su quale scoperta in più di me e degli altri mi hanno permesso di fare, su quanta vita hanno aggiunto alla vita. Soprattutto se l’esperienza vissuta insieme non mi avesse aiutato a scoprire, come diceva Antoine de Saint-Exupéry, che quell’“essenziale invisibile agli occhi” sbuca da tutte le parti. In tutti i casi, domande che si aprono e non certezze date per scontate.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI