“La chiusura delle scuole, la mancanza di un progetto scolastico lungimirante, gli orari ridotti e mai risanati delle scuole, il ritardo dei sostegni, la loro inadeguatezza, il sacrificio, ormai ritenuto scontato, delle mamme lavoratrici. Tutto ha lasciato le famiglie in grandi difficoltà economiche, e non solo, con grande sconforto e scoraggiamento, nella sensazione di una società fondata sulla famiglia ma che di fatto alla fine la discrimina”. Un gruppo di amiche ha scritto a questo giornale dando voce alle grandi difficoltà di questo periodo e sollevando domande più generali sul senso non solo personale, ma anche sociale e identitario del Paese. “Cosa vuol dire, nel mondo di oggi, essere una famiglia e decidere di formare una famiglia con le sfumature che ne derivano? Che contributo ci è chiesto e possiamo dare? Quale è il nostro ruolo? Come lo Stato valorizza e supporta questo importante compito che tocca sensibilmente l’intera comunità?”.

Chissà quali risposte avessero in mente per le loro domande queste mamme in difficoltà. Un sostegno al reddito familiare? Un generoso bonus babysitter? La riapertura di asili e scuole con una più adeguata organizzazione del lavoro e valorizzazione della loro professione? Credo che difficilmente si sarebbero potute immaginare che cosa sarebbe avvenuto con il loro grido di allarme.

Senza che nessuno lanciasse un particolare appello, quarantacinque persone si sono fatte vive per manifestare il loro desiderio di aiutarle gratuitamente. Persone diversissime tra di loro: c’è la mamma con tre figli che si è resa disponibile ad accudire i loro bambini; la coppia che lavora tutto il giorno in smart working e si è offerta di fare la spesa e altre commissioni; l’infermiera che si è proposta di curare, al termine dei suoi turni, chi ha bisogno; avvocati che si sono proposti di assistere nelle pratiche per un congedo parentale; la dottoressa che ha dato la disponibilità a fare visite a domicilio; studentesse universitarie che, per quanto non navighino nell’oro, si offrono come babysitter per le famiglie più povere e bisognose; nonne che volentieri terrebbero anche bambini altrui. Un mare silenzioso e inaspettato di affetto, di cuori che si spalancano.

Se non fosse silenzioso questo mare di generosità, si potrebbe sospettare che non sia autentico. Ma siccome lo è, rischia di essere dato per scontato. E così si rischia di dimenticare, ad esempio, anche i tanti infermieri e medici che, molto più stanchi che nella prima ondata, rinunciano alle ferie, non vengono meno al loro dovere di curare, ma anche di confortare colleghi esausti e pazienti sofferenti. Oppure gli insegnanti, che cercano ogni giorno di non perdere nessuno dei loro ragazzi. Questo dono totale di sé è il senso del Venerdì santo.

Allora vale la pena di tornare a parlare ogni tanto di questa risorsa, magari confusa e a volte contraddittoria, ma reale, quella che fa pensare agli altri non come a un nemico, ma come al prossimo ogni qual volta la vita diventa dura. Ha fatto bene Mario Draghi a parlare di “gusto del futuro” nel suo recente incontro con le Regioni. Sono immateriali le basi su cui poggia qualsiasi progetto sociale. Tanto più oggi, in un momento di così grave crisi. Un gusto che dovremmo ritrovare è quello di un “motore” che dovremmo riaccendere. Certo, la carità diffusa e il gusto del futuro non sono un fiore di campo che nasce e cresce spontaneo. Ma sono la nostra prima, grande, risorsa di cui spesso non siamo coscienti. Il desiderio di bene, l’ideale e la fede che va oltre la carità personale diventa addirittura incentivo per una ripresa economica.

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