Chissà quanti, tra quelli che Gli andavano appresso, gliel’avranno detto in tutte le salse: “Tieniti da parte qualcosa, che se poi ti mollano ti ritroverai da solo a svangare la vita!”. E Lui, ogni volta, a battere a testa bassa la sua strada, a rimettere mano nelle tasche del suo cuore per non cedere alle diavolerie: “Fa niente, ho già messo in conto che i miei amori di oggi possano diventare i miei carnefici di domani. Avanti sempre!”.
La linea di confine è sottilissima: la pecora ringrazia il pastore che tiene lontano il lupo dalla sua gola, è il suo liberatore. Il lupo, invece, denuncia lo stesso pastore per aver distrutto la sua libertà. “È la libertà, amici miei – avrà detto sommessamente tra un buu e un urra! il Messia –: sarà sempre la libertà a fare la differenza tra pastori e mercenari. Il segreto è tutto qui!”.
Ecco chiarita la prima legge di pastorizia: quando il pastore è cieco, il gregge si disperde. E il pastore mostra d’essere un mercenario, il migliore amico del lupo: “Il mercenario – non è sprovveduto in materia il Cristo narratore – che non è pastore, e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge. Il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore”. Non gliene frega un fico secco delle pecore: dentro i vangeli, mai manifestazione di disinteresse più schietta è mai stata lasciata ai posteri. Fregarsene, disinteressarsene, lasciare per strada: chissenefrega!
Da piccoli c’insegnano che ogni gregge ha la sua pecora nera. I Vangeli, al netto di qualsiasi malinteso, avvisano dell’esistenza dei pastori neri: “Io sono il buon pastore” mette in chiaro Cristo. “Buono” nel senso greco di “bello”: è il bel pastore, il più bello tra tutti i pastori, quello Maiuscolo, perché “dà la vita per le proprie pecore”. Strano come pastore, basterebbe chiederlo ai pastori: per tutto il bene che si voglia ad una pecora, nessun pastore darebbe la sua vita al posto di quella d’una pecora. Morisse una pecora, piangerebbe, scriverebbe un post su Facebook, si dispererebbe. Magari anche cadrebbe in depressione, ma da qui a morire al posto di una pecora ce ne passa di cuore.
Cristo, invece, alza l’asticella: “La mia vita viene dopo la tua, prima tu e poi me: fatti avanti tu, che io muoio al posto tuo!” Con annessa cagione di arrabbiatura da parte del gregge suo: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”. Che non nascano gelosie, insomma, da parte di chi dice: “È mio il pastore. No: è mio! Sono arrivato prima io. Zitta tu, che sei fuggita dall’ovile tre volte: vergognati!”. A catechismo c’insegnano ad avere paura del lupo, quando il vero pericolo, nelle comunità cristiane, sovente viene dalle pecore. Non dai lupi.
Gioca (quasi) d’anticipo sulla Chiesa, il fondatore. Quanti pastori diventano mercenari appena ricevuto lo stemma di pastore: dal grado più alto, a quello più piccolo. Comunità abbandonate, greggi orfani con pastori viventi, ovili chiusi per non doverli pulire. Peggio: pecore aizzate perché diventino lupi nei confronti di altre pecorelle del medesimo gregge. I mercenari – la dodicesima percentuale della prima chiesa, (don) Giuda mostrò d’essere tale – sono padri bravissimi coi figli che non chiedono la faccia del padre, si fanno latitanti quando un figlio avrà bisogno che il padre dica una parola, prenda posizione, mostri d’esser pastore. “Non è il bastone, o il cappello, a fare il pastore – avrà insegnato nonno Gioacchino a Gesù –. È la voce: chi possiede quella, possederà il gregge intero”.
Irridono un Papa quando chiama al telefono. Applaudono gli uomini di Chiesa quando indossano strumenti di potere. A conti fatti, però, ciò che rimane è l’eco di una voce, non il frastuono di un applauso pilotato: “Pronto, sono Papa Francesco”. La gente si stupisce, non ci crede, tracolla: “Ascolteranno la mia voce” (cfr Gv 10,11-18). L’aveva detto, tutto semplice: solo il pastore che usa la voce è pastore. Al pastore afono nessun potere sulle pecore. Ecco perché un esercito di pecore condotte da un leone sconfiggerà un esercito di leoni condotto da una pecora.
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