Elogio della complessità

La complessità è forse uno dei sintomi più forti del fatto che si sta entrando nella realtà e non ci si sottomette a uno schema

La complessità è forse uno dei sintomi più forti del fatto che si sta entrando nella realtà e non ci si sottomette a uno schema. A febbraio, un sondaggio Economist-YouGov ha intervistato i cittadini statunitensi su come vedevano il mondo, proponendo loro due opzioni. La prima affermava che il mondo è grande, meraviglioso, pieno di gente stupenda e che non c’è motivo per restare soli. La seconda opzione sosteneva che la vita è minacciata da terroristi, immigrati illegali e che la priorità è proteggersi.

Due forme poco complesse che oscillano tra il buonismo e l’ossessione per la sicurezza e la minaccia degli immigrati. I risultati sono stati molto significativi: tre elettori di Biden su quattro hanno scelto l’immagine di un mondo meraviglioso, mentre due terzi dei votanti di Trump hanno optato per un mondo catastrofico.

La stessa cosa sta succedendo nella campagna elettorale per le regionali di Madrid. Solo un’immagine semplicistica e lontana dalla realtà può consentire a un partito di chiedere il voto focalizzandosi sull’insicurezza: la Spagna è uno dei Paesi più sicuri di Europa e Madrid una delle città più sicure della Spagna.

Due esempi sono utili per documentare come le formule che tralasciano la complessità non aiutano a comprendere quanto succede nel mondo. Uno è il recente ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, l’altro è dato dalle politiche per fronteggiare la crisi economica prodotta dal Covid.

Nei suoi primi cento giorni di mandato, Biden ha adottato rapidamente diverse e importanti misure. Ha dato il via a un piano ambizioso per la ripresa, ha ricostruito i rapporti con gli alleati tradizionali, ha accelerato la campagna vaccinale e, inoltre, si è impegnato a ritirare le truppe dall’Afghanistan. Lo farà nel momento in cui si compiono vent’anni dall’inizio della guerra contro la terra dove i terroristi di Al Qaeda e i talebani mantenevano una riserva mondiale di jihadismo. L’Afghanistan lo era, e lo è, non l’Iraq. Dopo l’11 settembre, i risultati dell’offensiva statunitense furono quasi immediati, ma i talebani trovarono subito rifugio nell’ovest del Pakistan e da qui lanciarono la loro controffensiva, alla quale non si è riusciti a rispondere con successo negli ultimi vent’anni.  Obama e Trump avevano promesso di far tornare i loro soldati, ora pare che Biden si appresti a farlo.

È un errore. Nel mondo c’è gente stupenda e gente molto meno stupenda. Ci sono migranti che minacciano poco la sicurezza e jihadisti che sono invece una minaccia. Lasciare l’Afghanistan al suo destino vuol dire, sicuramente, che quella che era una guerra tra i talebani e gli eserciti occidentali si trasformerà in una guerra civile. La parte più debole è il Governo afgano e i talebani possono arrivare a controllare il potere. I talebani continuano a essere collegati ad Al Qaeda e non hanno rispettato gli accordi di pace delle trattative condotte a Doha nel 2020.

Con i soldati americani se ne va anche la Nato. La situazione può essere assimilata a quella che si creò nel 2011 con il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq, consigliata allora da Biden. Quella decisione, con altri fattori, provocò l’ascesa del Daesh.

L’espressione guerra al terrorismo non ha senso proprio perché si sta parlando di un fenomeno complesso, nel quale è determinante l’asimmetria tra gli Stati e i jihadisti. E anche perché il fattore culturale, educativo e religioso è molto più decisivo che in un conflitto classico. Non vale né il semplicismo di dare per superata la minaccia jihadista con la sconfitta del Daesh, né lo schematismo utilizzato due decenni fa per fronteggiarla.  

Allo stesso modo, per rispondere alla crisi economica non serve la classica dialettica tra Stato e società civile. Biden ha senza dubbio fatto bene a promuovere il piano di stimoli da 1.900 miliardi di dollari, come ha fatto bene l’Ue a mettere in moto il Fondo Next Generation Eu. Non è positivo che vi sia un significativo ritardo nell’attuare quest’ultimo. In questi giorni arrivano a Bruxelles i piani nazionali ed è necessario velocizzare al massimo la gestione. L’occasione quasi unica che comportano gli aiuti europei non può essere sottomessa a uno schema statalista che non tiene conto del mercato e della società civile (vizio molto spagnolo). Però, in questo momento, non si può neppure chiedere meno Stato. Ancora una volta, è necessario poter contare non su meno Stato, ma su uno Stato migliore, su un’Europa migliore, perché si abbia una società migliore.

Diffidiamo degli slogan e delle formule che rifuggono la complessità.

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